Giorgia Caporuscio, la voce femminile della pizza napoletana a New York

Giorgia Caporuscio, la voce femminile della pizza napoletana a New York

Giorgia Caporuscio è oggi una delle voci più autorevoli e riconoscibili della nuova generazione di pizzaioli italiani a New York. Imprenditrice, pizzaiola certificata e co- fondatrice delle pizzerie Don Antonio, Giorgia ha saputo costruire una propria identità professionale, affermandosi in un settore storicamente maschile e portando avanti un dialogo costante tra tradizione e innovazione. L’abbiamo intervistata per Il Newyorkese.

Sei cresciuta con un padre che è un’istituzione della pizza napoletana in America. Ti ricordi qual è stata una prima lezione, tecnica o di vita, che ti ha trasmesso e che continua a guidarti?

I papà italiani di una certa età non ti insegnano mai davvero in modo diretto. Ti guardano, ti fanno fare, e al massimo ti dicono “hai capito?”, dando per scontato che la risposta sia sì. E poi, da quel momento, te la devi cavare da sola. Alla fine è proprio così che ho imparato tutto: sul campo, osservando lui ogni giorno, lavorando insieme per tanti anni, sbagliando, correggendomi e crescendo piano piano. È stato un apprendimento continuo, fatto più di esempi che di parole. Con il tempo ho capito molto chiaramente cosa mi piace e cosa non mi piace di questo lavoro, quali aspetti sento davvero miei e quali invece faccio più fatica ad accettare. Ma soprattutto ho imparato una cosa fondamentale che lui mi ha sempre trasmesso, magari senza dirla esplicitamente: l’umiltà. Il non montarsi mai la testa, anche quando le cose vanno bene, anche quando arrivano i riconoscimenti o il successo. Restare con i piedi per terra, rispettare il lavoro, le persone e il sacrificio che c’è dietro ogni risultato. Questo, secondo me, è il messaggio più importante che mi porto dietro, sia dal punto di vista professionale sia da quello umano e personale. Allo stesso tempo, da lui e da questo mestiere ho imparato anche che non puoi mai fermarti. È un lavoro che ti obbliga a reinventarti continuamente, a non dare nulla per scontato. Devi cambiare, sperimentare, creare: nuove pizze, nuovi concept, nuovi modi di lavorare. Ed è proprio questa continua evoluzione, alla fine, che rende questo lavoro vivo e che ti spinge ad andare avanti.

Sei una delle poche donne pizzaiole certificate negli Stati Uniti. Qual è stata la sfida più grande per farti spazio in un settore storicamente maschile, e cosa consiglieresti alle giovani donne che vogliono intraprendere questo percorso?

Ogni giorno, ancora adesso, essere presente in questo ambiente significa sfidare uno status quo consolidato. Ci sono ancora difficoltà a far accettare che una donna possa essere allo stesso tempo imprenditrice e pizzaiola di livello professionale. Io sono stata fortunata: crescendo professionalmente negli Stati Uniti, ho avuto molti maestri, padri pizzaioli che hanno creduto in me e mi hanno insegnato tanto. Mi sono sempre sentita considerata, ma tante altre ragazze che hanno intrapreso questa carriera si sono sentite svantaggiate, con la percezione che le donne in questo lavoro non potessero arrivare ai massimi livelli. Ancora oggi, la pizza è vista come un mestiere “da casa”, mentre chef e cuoche in cucina ricevono più riconoscimento. Ci sono due ostacoli principali: il primo è legato alla percezione tra uomini e donne, il secondo è interno al mondo femminile stesso, tra chef e pizzaiole. Negli Stati Uniti, questa dinamica si sente ancora di più. Proprio per questo, prima della pandemia nel 2019, ho spinto per creare un gruppo di sole donne, “Women in Pizza”. L’anno scorso è diventato un’organizzazione no-profit insieme ad altre pizzaiole negli Stati Uniti, per supportare le nuove generazioni. Veniamo da background diversi, facciamo pizze diverse, ma condividiamo esperienze, ricette e tecniche. Non ci sono segreti tra di noi, perché il confronto e l’aiuto reciproco sono fondamentali. Questo è un grande cambiamento rispetto a quanto accade ancora oggi tra molti pizzaioli italiani, che vedono i propri impasti come segreti da proteggere. Attualmente sono la prima donna pizzaiola con una pizzeria napoletana nella guida Michelin a New York City. Non potrei aver raggiunto questi traguardi da sola: il merito è del mio team, mio marito e due manager donne eccezionali che mi supportano ogni giorno. È una collaborazione al 50 e 50, e senza di loro nulla sarebbe possibile.

Le vostre pizzerie sono ambasciatrici della vera pizza napoletana a New York. Come bilanci fedeltà alla tradizione e innovazione quando crei una nuova pizza o un nuovo impasto?

Allora, io sono molto legata a Don Antonio, che è quasi un’istituzione: non posso cambiare le pizze radicalmente, perché i clienti sono molto affezionati, quasi come fossero i loro figli. Quando elimino o modifico una pizza, capita che qualcuno si arrabbi, quindi bisogna procedere con delicatezza. Quello che faccio è modellare il menù di Don Antonio con la mia idea di offerta: cerco di proporre un menù leggermente più piccolo, più semplice ma curato nei dettagli. Dopo la pandemia, inoltre, è diventato difficile reperire alcuni ingredienti, quindi ho puntato sui prodotti locali: tutte le verdure, ad esempio, le prendiamo da fattorie vicine. Questo ci permette di rispettare la tradizione, usando ingredienti di eccellenza, ma allo stesso tempo innovare, creando qualcosa di unico. Per esempio, ci sono pizze tipiche rivisitate con il mio tocco: la “Norma” è la mia versione di un classico siciliano, mentre la “Ten Year Pizza Anniversary” è la mia reinterpretazione della Margherita, creata per celebrare i dieci anni di Don Antonio. Sono piccole innovazioni che fanno la differenza: mantengono la tradizione, l’eccellenza dei prodotti italiani e locali, ma portano un elemento creativo che le rende uniche. In questo modo, riesco a coniugare fedeltà alla tradizione e innovazione, rispettando la storia della pizzeria ma aggiungendo il mio personale contributo.

C’è un momento nella tua carriera in cui hai capito di aver trovato davvero la tua voce e la tua identità come pizzaiola, distinta da quella di tuo padre?

Ancora oggi sto cercando di uscire dall’ombra di mio padre, e non è affatto facile. È una personalità enorme, un pizzaiolo straordinario, e crescere professionalmente accanto a lui significa misurarsi continuamente con un’eredità importante. Io dico sempre agli altri: “Non sono semplicemente la figlia di mio padre”. Ho una visione diversa, un approccio diverso al lavoro, ma distinguermi non è stato immediato. Credo che il momento decisivo sia stato nel 2019, quando ho attraversato una vera crisi personale. Non volevo più stare negli Stati Uniti, New York non mi entusiasmava più, e avevo perso la motivazione per il lavoro. Mi sono presa un vero “burnout” e ho deciso di fare un passo indietro, di andare a scuola, studiare e vedere questo mestiere da una nuova prospettiva, più americana e più professionale. Ho seguito un corso di Culinary & Restaurant Management  a Downtown Manhattan, che mi ha aperto gli occhi. Dopo la scuola ho deciso che era il momento di mettermi in gioco: avevo 30 anni, e volevo davvero costruire la mia strada. Così, nel 2020, ho rilevato Don Antonio, prendendo in mano la pizzeria, mentre mio padre faceva un passo indietro. Ironia della sorte, a febbraio è arrivato il Covid negli Stati Uniti, e ho dovuto chiudere per due mesi. Paradossalmente, quei mesi di pausa mi hanno aiutata: mi hanno dato il tempo di capire lentamente cosa volevo offrire ai clienti e come far emergere la mia figura. Quello è stato il momento in cui ho capito davvero chi volevo essere come pizzaiola: con la mia voce, il mio stile e la mia identità, pur restando fedele alla tradizione che ho ereditato.

Guardando al futuro: qual è il tuo sogno professionale? Aprire un nuovo locale, formare una nuova generazione di pizzaioli, o magari portare la pizza napoletana in un’altra città del mondo?

Il mio futuro è ancora aperto a tante possibilità. Certo, la pizza resterà al centro della mia vita, ma mi piacerebbe anche sperimentare qualcosa di diverso, magari un ristorante che non sia esclusivamente di pizza. Ho tanti progetti e idee, e voglio valutare con attenzione cosa intraprendere nel 2026 e 2027. La sfida, però, è reale: trovare pizzaioli disposti a lavorare davanti a un forno a legna, con un certo tipo di impasto, è sempre più difficile. Io insegno da zero, ma formare nuove figure è impegnativo, quindi per ora penso a qualcosa di più semplice, che resti legato alla mia esperienza e alla tradizione della gastronomia italiana, senza però essere rigido. Potrebbe essere un locale di fritti, di tapas, o un’attività da asporto: ci sono tante possibilità da esplorare. Un altro grande desiderio è insegnare. Amo trasmettere ciò che so ad altri, perché l’insegnamento mi restituisce sempre qualcosa di prezioso. Mio padre ha sempre valorizzato la formazione, e anche qui a New York ho avuto la possibilità di fare corsi e laboratori, coinvolgendo persone di tutte le età. Quando abbiamo aperto Fulton, ho spinto molto su attività per bambini, perché credo che insegnare loro la manualità e l’importanza del cibo attraverso la pizza sia fondamentale. È bellissimo vedere mio figlio impazzire per fare la pizza: per lui è un modo di stare insieme a me e imparare divertendosi. Quindi il mio sogno futuro è duplice: continuare a crescere con nuovi progetti legati alla pizza e alla gastronomia italiana, e allo stesso tempo formare e ispirare le nuove generazioni, magari riuscendo a farlo a tempo pieno e coinvolgendo sempre più persone in questo mondo che amo.

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