Non possiamo parlare di sostenibilità senza considerare il grande impatto che gli ambienti di lavoro hanno sulla crescita culturale ed economica di ogni organizzazione umana. È noto infatti che il raggiungimento della felicità individuale scaturisce sempre più dal rapporto che abbiamo con il lavoro, che ci vede impegnati per una grande porzione del nostro tempo.
Ne parliamo con Andrea Montuschi, Presidente di Great Place to Work® Italia, azienda con HQ in San Francisco e presente in 60 Paesi, che da più di 30 anni (20 in Italia) opera nel settore dell’employer branding e dell’ascolto dei collaboratori con una mission precisa: migliorare la società attraverso la trasformazione degli ambienti di lavoro.
Fra gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile definiti dalle Nazioni Unite (SDG) c’è anche quello di fornire un lavoro dignitoso all’interno di un ambiente lavorativo sano e sicuro, un obiettivo funzionale anche a quelli di favorire la parità di genere, la salute e il benessere individuale, ecc… Dunque, anche la qualità dell’esperienza lavorativa è uno dei perni dello sviluppo sostenibile. Come condivide GPtW questa visione?
Il nostro lavoro è sempre stato impostato su questa visione e siamo molto contenti di constatare che negli ultimi anni la corporate social responsibility si è arricchita di elementi specificatamente funzionali al miglioramento delle condizioni di lavoro, degli ambienti di lavoro e della equa gestione della diversity di genere, età ed etnia, al punto di rappresentare veri e propri asset etici indispensabili per attrarre finanziamenti da parte di fondi pubblici e privati e per aumentare la competitività lavorativa di ogni società. Una condizione sine qua non che sta radicalmente cambiando il panorama aziendale degli stakeholder interni ed esterni, nonché accelerando molte delle innovazioni connesse con i dipartimenti HR, sia dal punto di vista della retention della forza lavoro, sia da quello dell’attraction di candidati, sia, infine, da quello della gestione dei collaboratori già in azienda.
Possiamo immaginare una dimensione della sostenibilità interna alle organizzazioni, e quindi locale, che diventa poi parte di quella globale?
Assolutamente sì, infatti al nostro storico logo Great Place to Work® abbiamo aggiunto un payoff “for all”, proprio per enfatizzare come questi elementi di rispetto ed equità stiano correlando sfere pubbliche e private, come ad esempio è successo per il movimento Black Lives Matter, che è partito come campagna civica anti razzista per poi raggiungere ambienti applicativi più ristretti, come quelli del lavoro impiegatizio.
Ecco allora che il processo può diventare di tipo osmotico: i riferimenti etici espressi dalla cultura d’impresa possono integrare ed arricchire quelli civici e viceversa (e in tal senso le grandi aziende multinazionali acquistano un ruolo promotore preponderante, esportando la loro cultura aziendale in molti paesi).
Dalle vostre survey sui dipendenti delle aziende sembra che sia sempre più importante sentirsi parte di una realtà produttiva che abbia valori etici e sociali e una cultura orientata allo sviluppo sostenibile. È così?
Direi proprio di sì, è una tendenza in forte crescita e lo vediamo soprattutto analizzando i dati dei più giovani: sono infatti soprattutto i ragazzi della generazione Z, che per la prima volta entrano nel mondo del lavoro, ad essere particolarmente sensibili alla sostenibilità e all’etica. Abbiamo anche notato come durante la pandemia sono avvenuti grandi cambiamenti comportamentali a livello di leadership: i leader moderni devono sviluppare doti di empatia, devono imparare a gestire (e non nascondere) la propria vulnerabilità, devono essere in grado di mantenere il contatto con le persone, a prescindere dalla possibilità di farlo fisicamente o in remoto.
GPtW è esperta di classifiche e rating aziendali, quanto secondo voi il livello di implementazione di politiche di sviluppo sostenibile influisce sulla reputazione di un’azienda verso il mercato?
Noi da sempre misuriamo due elementi: l’offerta dell’azienda verso i collaboratori in termini di politiche HR e di welfare, attraverso un documento che si chiama Culture Audit, che somministriamo al management e alle Risorse Umane, e un questionario destinato solo ai collaboratori. Dall’incrocio tra queste due misurazioni viene elaborato il punteggio che determina la classifica.
Il giudizio dei dipendenti ha più peso in termini relativi e questa attenzione all’opinione dei collaboratori è uno degli elementi che ci differenziano maggiormente dalle altre società che fanno employer branding e che considerano quasi esclusivamente un elemento o l’altro. Con riferimento al tema della reputazione, è sicuramente un valore essere presenti sulle classifiche di GPtW o almeno certificati. La certificazione è un primo step, che si raggiunge grazie ai risultati dell’indagine di clima, e non è un ranking, ma indica solo l’appartenenza a un gruppo selezionato di aziende eccellenti. Da questo gruppo di organizzazioni sarà stilata la classifica Best Workplaces, la cui prossima edizione italiana sarà comunicata il 22 Aprile.
Successivamente saranno anche pubblicate altre classifiche: Best Workplaces for Women, Best Workplaces for Millennials e Best Workplaces for Innovation. È importante precisare che la classifica “Best Workplaces for Innovation” non misura quanta innovazione è prodotta – non è il nostro lavoro -, bensì si focalizza sulla cultura dell’innovazione che le aziende creano.
Per quanto riguarda l’aspetto della reputazione, le classifiche di Great Place to Work® sono sicuramente una vetrina importante, confermata dai dati di una ricerca di LinkedIn che riportava che il 56% dei candidati che cerca lavoro su LinkedIn come prima cosa guarda se l’azienda ha il certificato GPtW. Essere un’azienda Great Place to Work® è fondamentale per qualunque azienda alla ricerca dei migliori talenti del mercato e costituisce un particolare fattore di orgoglio per i collaboratori già presenti nell’organizzazione.