C’è profitto “oltre il profitto”?

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Chiunque sia chiamato a governare un’impresa nei suoi studi economici ha incontrato di certo il pensiero di Milton Friedman, economista statunitense, esponente principale della scuola di Chicago e fondatore del pensiero monetarista. Il suo pensiero in estrema sintesi: “C’è soltanto una responsabilità sociale  delle imprese – usare le proprie risorse e impegnarsi in attività progettate per aumentare i profitti, fino a quando rimane dentro le regole del gioco, vale a dire che ci si impegna in una concorrenza aperta e libera senza inganni o frodi.”

È davvero questo l’obiettivo di una azienda? Sono convinto che tutti in fondo siano convinti che la mission di ogni società, nella sua accezione di impresa, sia il raggiungimento della prosperità e del benessere. La domanda più importante da porsi però è: chi prospera realmente e riceve benefici all’interno di un sistema così strutturato?

Nella maggior parte dei casi, si tratta di un gruppo piuttosto ristretto di persone, che si arricchiscono e arrivano a godere di privilegi a discapito della maggior parte delle persone che invece non godrà di alcun vantaggio, anzi, potrebbe addirittura essere sfruttata o venire svantaggiata. Inoltre, molte aziende peggiorano le condizioni del pianeta, perché non hanno a cuore le questioni ambientali in generale, né tantomeno quelle del territorio che le ospita. È chiaro, quindi, che c’è bisogno di un modello nuovo, di una riforma che coinvolga ogni aspetto delle società e che rinnovi nel profondo l’economia come l’abbiamo conosciuta. La Dottrina Friedman, che per mezzo secolo ha rappresentato il punto fermo di manager ed economisti, non è infatti più applicabile e addirittura minaccia la nostra esistenza: non possiamo più pensare a un organismo privo di responsabilità, il cui unico scopo sia assicurare il massimo profitto agli azionisti. Questo sistema, sul quale ci siamo basati finora, genera ricchezza e lavoro così come profonde disuguaglianze all’interno delle nazioni e delle comunità, e degrada l’ambiente in cui viviamo, privandolo di risorse.

A portare a galla il problema non è stata soltanto la crisi del 2008, con il collasso delle banche e delle istituzioni finanziarie. Questi settori, infatti, non sono gli unici a essere esposti e lo dimostra il fatto che negli ultimi anni la fiducia nei confronti del mondo aziendale è diminuita progressivamente e gli scandali che lo hanno coinvolto sono aumentati e la risonanza mediatica attorno ad essi si è amplificata. Mentre le società si espandono oltre i confini nazionali e travalicano i continenti, e la tecnologia offre sempre nuove soluzioni che migliorano le nostre vite, dobbiamo essere consapevoli della necessità di un cambiamento di paradigma.

Mettendo al centro l’individuo non stiamo facendo un qualcosa di altruista ma stiamo lottando per la sopravvivenza stessa della nostra organizzazione. Dobbiamo costruire un modello alternativo e durevole nel tempo, in cui la società produca benefici che possano essere estesi e condivisi, riducendo o evitando del tutto le conseguenze negative.

In molti nel 2018 abbiamo posto l’accento sul discorso di Larry Fink (CEO di BlackRock) agli investitori, speech stra-abusato negli ultimi mesi e per il quale vengo spesso preso in giro in ufficio (Simone Solidoro, Reputation expert in Zwan ha fatto anche dei meme su di me per questo), ma parliamo di un discorso cruciale
che in sintesi dice “bisogna guardare oltre il profitto”, rendendo questo concetto essenza stessa del profitto (BlackRock decide a chi destinare gran parte delle risorse finanziarie). Guardare oltre il profitto diventa essenza stessa del profitto.

Facciamo un passo indietro per provare a capire come la Reputazione sia diventata asset strategico di ogni impresa per un successo durevole nel tempo e per la sua stessa sopravvivenza e lo facciamo citando lo studio di Colin Meyer del 2018 (della Oxford University), trasformatosi nel best seller Prosperity.

Fin dal principio, l’idea di un’impresa si è sviluppata dal concetto che fosse come una persona, sebbene non avesse una presenza fisica. Questo dettaglio, questa sembianza umana, è ciò che trasmette la parola corporation, che viene dal latino corpus, ovvero corpo. Proprio come ci sono momenti differenti nella vita di ogni essere vivente, ed epoche storiche ben precise nelle quali l’umanità è stata protagonista di grandi cambiamenti, allo stesso modo anche le imprese si sono evolute, dal momento della loro nascita fino al giorno d’oggi.

Possiamo individuare 6 stadi che definiscono ciò che le imprese sono state e che le ha portate a essere come le conosciamo.

  1. Il primo è rappresentato dalle compagnie di mercanti, istituite con una licenza reale per intraprendere viaggi alla scoperta degli angoli più remoti del mondo, allo scopo di promuovere il commercio.
  2. Il secondo sono le “public corporation” create attraverso degli Act of Parliament, per la costruzione di opere come canali e ferrovie.
  3. Il terzo stadio si realizza nell’Ottocento: si tratta delle imprese private.
  4. Poi è stato il momento delle aziende di servizi e dell’ascesa delle istituzioni finanziarie, che rappresentano il quarto stadio di sviluppo.
  5. Il quinto sono le imprese transnazionali.
  6. L’ultimo, il sesto, è la “mindful corporation”: una società senza macchine, senza uomini, senza soldi, senza tutto, in pratica, ma con principi e scopi che determinano il suo destino così come il nostro.

Ripercorrere la storia delle imprese vuol dire comprendere le idee che hanno portato alla loro nascita. Le prime corporation, fondate per assolvere a funzioni pubbliche, come ad esempio amministrare le città, hanno fuso i loro scopi con obiettivi commerciali, hanno accompagnato lo sviluppo industriale e poi quello tecnologico, hanno creato il mondo dei servizi economici e finanziari, fino ad arrivare alle intelligenze artificiali e ai social network. Attraverso questi cambiamenti, le società sono passate dall’essere legate ai monarchi o agli altri organi di governo, a essere sotto il controllo di alcune famiglie, attraverso le banche. Successivamente, sono diventate imprese private che hanno subito un’ulteriore evoluzione, fino ad assumere l’aspetto che conosciamo, ovvero quello di realtà votate a massimizzare il valore per gli azionisti. Il profitto, quindi, è pian piano diventato l’unico obiettivo.

Le società, invece, sono entità vive e in evoluzione, che perseguono uno scopo, ovvero ciò per cui sono state create e che le definisce, ne plasma la natura e ne determina le azioni. La proprietà, la governance, la leadership, gli aspetti finanziari e le performance sono legate allo scopo.

Nel corso della storia e nelle varie parti del mondo, le società si sono sviluppate in modo diverso.

In Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, un’organizzazione ha adottato differenti modi di gestire la proprietà e le performance. Meyer nel suo studio ci ricorda infatti che, proprio come il codice genetico umano dà vita a moltissimi tipi di individui, le società si riproducono in modalità diverse e in questo modo si evolvono. Possiamo considerare il modello anglosassone e dell’Europa continentale e quello dell’Asia dell’est come i due opposti: il primo è basato su una proprietà fortemente distribuita, l’altro invece su aziende di famiglia, partecipazioni di banche e compagnie, oppure proprietà statale.

L’adozione di un sistema è il frutto di una serie di condizioni socio-economiche, ma anche di fattori culturali e religiosi, che hanno influenzato ogni aspetto della vita, compreso il modo di fare affari. La proprietà, tuttavia, pur essendo fondamentale, da sola non è sufficiente a garantire la prosperità di un’impresa. Accanto a essa deve esserci la governance, che garantisce, da un lato, la comunione di interessi tra azionisti e manager, dall’altro assicura il raggiungimento dello scopo della società.
Perché ciò si realizzi, però, per prima cosa occorre che ci sia uno scopo ben definito, che si analizzano il contesto in cui si opera e i suoi punti deboli, i rapporti e le partnership che si possono tessere con altre imprese e le relazioni con le persone. Il capitale finanziario non è più l’unico baluardo da proteggere a tutti i costi: per un’impresa, oggi sono molto più importanti il capitale umano, naturale e sociale, in sintesi il capitale Reputazionale.

Per comprendere cosa hanno significato i cambiamenti delle imprese avvenuti durante i loro 6 stadi, è fondamentale partire dalla differenza tra beni tangibili e intangibili. I primi rappresentano tutto ciò che è materiale, come gli edifici, i terreni, i macchinari; tra i secondi, invece, troviamo i brevetti, le licenze, tutto il sapere relativo ai campi di ricerca e sviluppo. Il Ventunesimo secolo ha visto una radicale inversione da questo punto di vista. Prima degli anni Duemila, infatti, l’80% del valore di mercato delle imprese era rappresentato da beni tangibili. Oggi, invece, sono i beni intangibili a coprire circa l’85% di quel valore.

Gli investimenti in beni intangibili sono iniziati ad aumentare, sia negli USA che in Europa, e hanno portato alla situazione attuale: un panorama caratterizzato dalla “mindful corporation”, in cui le compagnie possiedono idee e computer, ma capitali iniziali e spazi molto limitati, avendo però la possibilità di trasformarsi in veri e propri imperi. È il caso di Facebook, Amazon o Google: i fondatori di quest’ultima sono valutati da Forbe su cifre oltre i 40 miliardi di dollari a testa.

Oggi dobbiamo necessariamente prendere atto che le organizzazioni hanno delle responsabilità, dal momento che qualunque decisione esse prendano, possono ripercuotersi su milioni di persone. Quando un’organizzazione individua un determinato territorio come location per la propria sede, sta facendo una scelta ben precisa social, politica ed economica, e questa scelta avrà un impatto su quel territorio positivo o negativo; impatto non solo sulle persone che abitano quel territorio, ma sulla percezione e sulla reputazione di quel territorio nel mondo. Pensiamo, ad esempio, alle grandi organizzazioni italiane della moda o dell’automotive, al loro impatto sulle persone, alla loro capacità di rompere e spostare degli equilibri con le loro scelte e a quanto siano capaci persino di dare un’identità precisa a un’intera nazione. Se Italia vuol dire moda, design e auto di lusso, lo dobbiamo a dei brand e alla loro scelta di mantenere un saldo rapporto con il territorio, anche quando le condizioni non sono state ottimali.

Ogni società dovrebbe essere riorganizzata in virtù del fatto che rappresenta un insieme molto ricco e variegato di scopi e valori differenti. Le organizzazioni sono organismi viventi e come tali si evolvono, stabilendo relazioni con ciò che le circonda.

Per questo motivo, esse non possono prescindere dalla consapevolezza del proprio ambiente di vita, ma devono trovare il modo di integrarsi con esso, avviare degli scambi, offrire il proprio contributo per il benessere generale. Questo è possibile soltanto se ogni società o ente ha chiaro lo scopo per cui è nato: non quello dell’oggetto sociale o dello statuto, ma quello di cui parlava proprio Larry Fink.

Raggiungere lo scopo dovrebbe essere l’unica priorità anche per gli azionisti, che non dovrebbero puntare primariamente al profitto, ma condividere gli obiettivi societari per agire di conseguenza. Il capitale più importante, infatti, nel nuovo paradigma che va a definirsi, non è quello finanziario, ma quello reputazionale.

La legge, le istituzioni e il sistema di tassazione si stanno organizzando per agevolare questi processi, permettendo a ogni organismo di trovare la forma migliore di esprimersi e compiere il proprio scopo sociale.

La politica pubblica dovrebbe approfittarne sostenendo e incentivando non solo le relazioni tra imprese e istituzioni finanziarie, ma anche le partnership tra pubblico e privato, sostituendo alle vecchie dinamiche una visione nuova, vedendo nell’impresa e nell’imprenditore non un nemico da combattere ma il partner strategico per migliorare la reputazione del proprio Paese.

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