Stefano Cuzzilla • Manager per la rivoluzione sostenibile

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Protagonista di questo numero, abbiamo incontrato Stefano Cuzzilla, da 6 anni alla guida di Federmanager, l’associazione maggiormente rappresentativa nel mondo del management, appena rieletto per il suo terzo mandato (prima volta nella storia) che sta dedicando grande impegno ed energie al tema della sostenibilità.

Lei è stato rieletto come Presidente di Federmanager praticamente con un plebiscito. Una grande spinta politica per il nuovo mandato. La sostenibilità sarà il pilastro della sua missione?

Considero la mia riconferma alla presidenza di Federmanager non semplicemente una grande manifestazione di apprezzamento per quanto finora realizzato, ma soprattutto uno stimolo a fare di più e meglio per il futuro. Visto il contesto di crisi e fratture a cui stiamo assistendo nella politica e nella società, non è affatto scontata la scelta della continuità, e lo dico non perché abbia dubbi sull’aver fatto bene o abbastanza. Lo dico perché sono consapevole che le sfide che abbiamo davanti sono complesse e complessive, nel senso che riguardano tutti, in modo universale. In modo globale. Solo se si capisce che le interconnessioni a cui siamo legati non sono solo quelle che ci hanno reso fragili in un destino comune di fronte alla pandemia, ma sono soprattutto quelle che ci potranno rendere forti nei prossimi decenni. L’Europa e la sua svolta lo dimostrano. Certamente, la sostenibilità intesa nel senso più ampio del termine è una premessa imprescindibile per qualsiasi programma di azione ed è un pilastro del mio.

Tutti oggi parlano di sostenibilità e il rischio è quello di deteriorare la semantica di una parola. Proviamo a dare una definizione soprattutto economica e storica.

Con un inglesismo, ormai si parla di greenwashing proprio per denunciare una pratica di facciata, con cui alcune imprese si presentano come sostenibili se presentano soltanto un bilancio sociale. Dietro queste condotte, però, c’è una base di verità che vale la pena sottolineare: la sostenibilità è un fattore diretto della reputazione. E la reputazione influenza i consumi e incide sul business. Pertanto diventa cruciale conferire valore a chi effettivamente si preoccupa di rispettare l’ecosistema e, al contrario, screditare chi indossa solo una maschera. È il 1987 quando il primo ministro norvegese Brundtland, che non a caso era una donna, introduce la nozione di “sviluppo sostenibile”: è lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri. Dietro questa visione trovo ci sia un fondamento etico importante, lo stesso che ha spinto a chiamare “Next generation Eu” il più grande piano di intervento finanziario mai deciso nella storia dell’Unione europea.

In questa parola si incontrano prodotto capitalistico classico e rispetto ineludibile ormai dell’ambiente? In altre parole cura della madre Terra e posti di lavoro possono andare d’accordo. Facciamo numeri ed esempi.

Per agganciare la sfida ambientale serve più industria, non meno industria. È molto importante però quale politica industriale si sceglie. È fondamentale attivare la leva fiscale premiante per chi investe nella sostenibilità e, viceversa, sanzionare o escludere chi contravviene. Da manager, vediamo crescere la consapevolezza e vediamo un grande potenziale. Da una nostra recente indagine, ad esempio, è emerso che per due manager su tre non adeguarsi ai paradigmi della sostenibilità comporta minori spazi di mercato e minore accesso ai finanziamenti. Le stime sull’occupazione legata all’economia circolare, nello scenario migliore, parlano oltre nuovi 500 mila posti di lavoro entro il 2030. Nello scenario peggiore, ovvero se non facessimo nulla, sarebbero appena 35 mila. Nel concetto di ecologia integrale espresso da Papa Francesco si inserisce questa sinergia a cui lei fa riferimento: l’incontro tra cura del pianeta e benessere sociale, che si ottiene creando occupazione. Non solo è un incontro possibile, deve essere un obiettivo perseguibile.

Una definizione di impresa sostenibile?

Sostenibile è l’impresa che si preoccupa dell’impatto della sua attività su tutto ciò che la circonda: cittadini, ambiente, amministrazioni. È finita l’era in cui l’impresa si preoccupava solo del fatturato. L’orizzonte è più largo. Più concretamente, in riferimento alla produzione, dobbiamo immaginare una riconversione profonda dell’industria. Economia circolare, fonti alternative ed efficienza energetica, nuovi modelli produttivi. L’impresa sostenibile è un’impresa competitiva, non scordiamolo. Il rispetto sociale e ambientale è ormai un fattore di sviluppo che determina il successo di un’attività o, al contrario, se tralasciato, il suo fallimento. Non è un caso che la finanza internazionale si stia muovendo in questa direzione.

Nel mare magnum della sostenibilità arrivano i manager. Chi sono i manager della sostenibilità?

Poiché l’impresa è al centro della trasformazione, chi occupa posizioni di governance prende decisioni dirette e perduranti , che hanno conseguenze anche fuori dal singolo business. Ci sono aspetti organizzativi, logistici, normativi e finanziari che bisogna considerare. Ecco perché il manager per la sostenibilità è una figura necessaria e anche poliedrica. Le competenze richieste sono tecniche, specialistiche e trasversali. Non dovete pensare alla figura dell’ingegnere esperto dei processi di riciclo servono abili conoscitori delle nuove tecnologie che stanno sovvertendo i dogmi produttivi alla luce del cambiamento verde, che è un cambiamento più generale che deve essere promosso all’interno delle organizzazioni in tutte le aree e in tutte le funzioni.

Lei propone una sorta di certificazione della figura. Spieghi meglio.

Abbiamo definito nel dettaglio il profilo del “manager per la sostenibilità” che certifichiamo, attraverso il programma “BeManager”, validando le competenze tecniche e trasversali. Il disciplinare che adottiamo è condiviso con Rina e ha ricevuto l’importante riconoscimento dell’ente di accreditamento Accredia. Sono già oltre 100 i manager che hanno superato il percorso e nelle prossime settimane lanceremo una nuova edizione perché l’interesse è alto.

Un po’ di tempo fa il manager era visto come un tecnico della governance. Una figura dell’élite. Oggi la pandemia ha rimesso la competenza al centro. Basta vedere l’arrivo di Draghi. È così?

Élite non è una brutta parola se sta a indicare una classe dirigente responsabile che persegue l’interesse collettivo. È vero che dietro l’arrivo di Draghi c’era anche l’appello a mettere la competenza al centro dell’azione di governo, ma sarebbe inesatto leggere esclusivamente in questi termini ciò che è avvenuto. Non voglio sembrare scettico, ma la pandemia non ha aiutato a far emergere la competenza. Ha piuttosto messo in luce l’incompetenza, i suoi effetti nefasti, sempre più evidenti perché percepiti direttamente sulla pelle dei cittadini. La strada per un sistema meritocratico è ancora lunga in questo Paese.

Cosa si aspetta nel Piano nazionale di rilancio e resilienza, quello che gestirà i soldi del Recovery per quanto riguarda transizione ecologica?

Mi aspetto che il ministero di Roberto Cingolani riesca nell’azione di coordinamento che gli è stata affidata. Un compito non semplice, perché è trasversale tra più ministeri. Ci vuole capacità di visione, di pianificazione e di attuazione. E anche capacità politica. Riflettiamo sul termine “transizione”. Utilizziamo questa parola perché essa definisce compiutamente la profonda trasformazione dei processi e delle organizzazioni a cui siamo chiamati. Implica la riconversione dei meccanismi produttivi che ci siamo dati fino a ieri. Indica una strada evolutiva, segnando il percorso tra un prima e un dopo.

È il comparto sulla carta più ricco, più di 70 miliardi, più dell’innovazione digitale. Fallire vorrebbe dire uscire dalla storia?

Significa ipotecare il futuro dei nostri figli. Abbiamo molte risorse a disposizione, è vero, perciò non possiamo sbagliare. Il nucleo centrale delle nuove politiche europee ruota intorno al concetto di “sostenibilità competitiva”, che comprende quattro ambiti d’intervento (sostenibilità ambientale, produttività, equità e stabilità macroeconomica) sui quali gli Stati membri dovranno realizzare riforme e investimenti che saranno finanziati con sovvenzioni e prestiti europei. Circa il 37% di tutte le risorse stanziate sono vincolate al capitolo “green”.

Cosa succederà con i colossi della nostra industria, tipo Ilva, dove lavoro e ambiente sono finiti in mano alla magistratura?

Su Ilva ci sono molti progetti validi di rilancio, a partire dal ciclo dell’idrogeno. C’è l’impegno di Invitalia e un approccio rinnovato che vede lo Stato partecipe del futuro del Gruppo. La dicotomia tra lavoro e salute che in Ilva ha toccato punte estreme ci impone di realizzare quegli investimenti che finora sono mancati per garantire la sicurezza della produzione e il risanamento ambientale.

A Vinitaly hanno mostrato un servizio in cui si vedevano i millennial discutere al mercato sulla storia di un olio prima di comprarlo. È una metafora del mercato del futuro?

Non conosco questo episodio, ma non fatico a crederlo reale. Il comportamento dei consumatori sta cambiando nel senso di una maggiore attenzione verso la qualità e la reputazione del prodotto. Le generazioni più giovani sono maggiormente sensibili. Un prodotto eticamente ed ambientalmente sostenibile inizia a giustificare anche una maggiore spesa da parte dell’acquirente. L’offerta ha già intercettato questo trend e moltissime aziende stanno investendo in certificazioni che attestino provenienza e qualità. Il vero cambio di passo lo vedremo quando anche il prezzo seguirà la dinamica.

Abbiamo scoperto che la questione della plastica è più ideologica che ecologica, oltre ad essere una questione di educazione civica (dove la si butta). Bottle to bottle nelle imprese delle acque minerali è già una realtà. Lei è un sostenitore dell’economia circolare? Basterà a salvarci?

Le imprese hanno già iniziato un circolo virtuoso di riuso e di smaltimento dei rifiuti industriali. Dobbiamo aumentare il coinvolgimento delle Pmi nelle attività verdi e nel miglioramento ambientale. Anche perché i nostri dati dicono che il 60% delle Pmi intende puntare sulla riduzione di rifiuti attraverso il riutilizzo e la vendita ad altre imprese. La plastica purtroppo non si elimina da un giorno all’altro e tutte le normative che ne sanzionano l’utilizzo non tengono conto che si tratta di una trasformazione che richiede tempo e risorse. Penso che l’approccio migliore resti quello che incentiva le buone prassi, taglia le tasse a chi è più virtuoso e sostiene parzialmente i costi di chi abbandona le vecchie produzioni per nuovi modelli di business. L’economia circolare non è gratis, necessita di investimenti. Pertanto, per promuoverla, serve un’azione di sistema che veda dalla stessa parte il legislatore, l’imprenditore e il cittadino.

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