Stefano Cuzzilla • Un pilastro per la ripresa nazionale

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Stefano Cuzzilla, presidente Federmanager e 4.Manager, porta la sua testimonianza dal punto di vista manageriale su un tema di cui tanti parlano, spesso senza prendere iniziative concrete. Cosa è oggi la meritocrazia per il Sistema Italia, per le nostre imprese e per le professionalità a cui ci affidiamo in cerca di leadership? Ecco le sue idee per mettere il nostro Paese sulla via per un’autentica cultura del merito.

Presidente Cuzzilla, lei è al vertice dell’organizzazione maggiormente rappresentativa nel mondo del management, nella quale la cultura del merito è la base per la formazione e la carriera di un manager. Qual è la sua visione?

Credo che il merito sia uno dei pilastri su cui strutturare la ripresa nazionale, a cui tutti vogliamo contribuire. Ma, sa, una cosa è crederci e un’altra è riuscirci. Bisogna liberarsi un po’ delle ideologie e concentrarsi sui fatti. E i fatti ci dicono che, per uscire dalle diverse crisi che hanno segnato l’ultimo triennio, è meglio affidarsi a persone capaci e ad organizzazioni strutturate e innovative, che sappiano trovare soluzioni nuove di fronte a problemi complessi. Mi appello spesso alle competenze manageriali per guidare la ripresa: non alludo solo alle conoscenze tecniche o specialistiche, mi riferisco proprio alla capacità di gestire sistemi complessi.

Finora hanno quindi prevalso le ideologie?

Ciò che intendo dire è che l’Italia si è piegata per decenni a logiche diverse, che hanno voluto rispondere a criteri di appartenenza, di vicinanza, di fiducia, invece che meritocratici. In passato sono stati commessi, nel pubblico e nel privato, errori di programmazione e di gestione di cui purtroppo paghiamo ancora le conseguenze. Come testimoniano i quasi 3 mila miliardi di debito pubblico che gravano come un macigno sul Paese. È tempo di cambiare strada, di orientare le nostre scelte ripartendo dalle competenze. Ecco, il merito è come una bussola da seguire, dovremmo farci guidare da chi ne sa più di noi.

Cosa pensa del fatto che noi stiamo qui a ragionare di merito? Stiamo già seguendo la bussola?
Sono contento che questa parola sia tornata in auge, e che anche a livello istituzionale se ne parli. Io per esempio non sono tra i detrattori della nuova denominazione del Ministero dell’Istruzione e del Merito, piuttosto penso che dietro la scelta terminologica ci sia un valido disegno di riconoscimento. Istruzione e merito rappresentano un binomio vincente, vincolato da una naturale interdipendenza. Tramonta quindi l’epoca del “sacrificio del sapere” sull’altare del saperci fare, dell’avere le giuste conoscenze. È l’istruzione la chiave dell’emancipazione e del consolidamento del merito.

Secondo lei l’attuale Governo premierà il merito più di altri?

Per risponderle con una battuta, quella del merito è una cultura “da costruire”. Molti sono infatti gli ostacoli da superare per affermare una meritocrazia sostanziale, oltre che teorica, a fondamento delle scelte che il Paese deve compiere. Ci sono però segnali importanti da questo Governo. La stessa premier Meloni è un simbolo della costanza del merito: ha fatto tutta la gavetta politica, esperienze sul campo, è preparata per il ruolo al quale è stata chiamata. Credo che, in un certo senso, se il precedente veniva definito “Governo dei migliori”, quello attuale abbia tutte le caratteristiche per essere identificato come “Governo che premia il merito”. Non ho ragioni per dubitare che questo criterio non sarà seguito anche per le nomine di Stato che riguardano aziende di importanza strategica per il Paese, fondamentali per stimolare l’intera economia.

Lei pensa che lo scenario di recessione economica sia alle spalle?
Le proiezioni di crescita sul nostro PIL sono meno fosche rispetto a pochi mesi fa, quando aleggiava lo spettro della recessione globale. Superata la fase più acuta dell’emergenza energetica, la nostra industria sta reagendo. Certo è che l’inflazione pesa ancora troppo sui consumi e l’Europa è il nostro primo mercato di riferimento, per cui siamo legati a doppio filo alle decisioni della BCE e delle altre istituzioni europee che, come noto, devono trovare una sintesi tra le posizioni dei diversi Stati membri. L’obiettivo prioritario è dare alle nostre imprese la stabilità per tornare a investire e aumentare il più possibile la credibilità del nostro Paese verso il resto del mondo, che è il modo migliore per attrarre capitali stranieri rivolti alla crescita e non predatori.

E per attrarre anche capitale umano, dato che l’Italia rispetto ad altri Paesi ha un turnover molto basso e spesso i più giovani tendono ad andare all’estero. Quanto è importante il ricambio dei ruoli all’interno di un’organizzazione aziendale per favorire la propria crescita professionale e quella del sistema aziendale?

Il turnover è certamente importante, soprattutto in un Paese come il nostro che ha il vizio, purtroppo diffuso, di relativizzare la giovinezza: in Italia c’è ancora chi, a 50 anni, è considerato un giovane profilo, circostanza questa semplicemente inconcepibile in molti contesti esteri. Ma attenzione, non bisogna cadere nella tentazione della “rottamazione”. È necessario valorizzare le giovani professionalità meritevoli, prevedendo però che esse possano cooperare, in un processo virtuoso, con quelle professionalità più esperte capaci di offrire un contributo preziosissimo in termini di conoscenze acquisite. In proposito, ai manager in uscita dal mondo del lavoro, deve essere riconosciuta una pensione adeguata all’impegno profuso nell’arco di un’intera carriera. Anche questo è un modo per riconoscere il merito. Su questo punto, anche nelle mie vesti di Presidente della Confederazione Italiana Dirigenti e Alte Professionalità (Cida), sono impegnato nel dialogo con i più alti livelli istituzionali, per difendere le pensioni da inique penalizzazioni che colpiscono una categoria come la nostra, da sempre al servizio del Paese.

Cosa manca al mercato del lavoro italiano per essere più attrattivo verso i talenti, giovani e meno giovani? Innanzitutto, e non è di certo un mistero, il riconoscimento. Se sviluppo le competenze idonee a rivestire un incarico, devo essere posto nelle condizioni di concorrervi, le mie competenze devono essere riconosciute. Non si può far finta che quel merito non ci sia o che – addirittura peggio – sia più opportuno percorrere canali alternativi. Più l’incontro tra domanda e offerta di lavoro è cristallino, più è facile garantire pari opportunità, che significa azzerare le disparità di partenza. Altra nota dolente è quella che riguarda le retribuzioni, che devono gratificare i sacrifici e le responsabilità assunti da chi è chiamato a dirigere, come i manager. È un problema che si avverte con maggiore intensità nel settore pubblico, laddove le retribuzioni previste per i vertici dirigenziali non sono paragonabili a quelle percepite in ambito privato, giustamente definite invece in base a criteri di mercato.

Lei quindi è contrario al tetto agli stipendi dei manager pubblici?
L’ambizione e il progresso non vanno demonizzati. Un Paese che non si pone l’obiettivo di alzare l’asticella, di migliorarsi attraverso le sue persone sta abbandonando nelle retrovie anche i meno fortunati e i meno capaci. È questa la verità. Chi ha un ruolo manageriale lo ricopre sapendo che le sue responsabilità sono elevate e non lo fa a cuor leggero. Noi manager siamo consapevoli che dalle nostre scelte può dipendere il successo o il fallimento di un’impresa. Siamo i primi a sostenere che chiunque, a prescindere dalle condizioni di partenza, deve essere premiato se meritevole. Quindi sì, porre un tetto alle retribuzioni è un segnale depressivo per un Paese che ha le più basse retribuzioni in Europa e dove le donne sono pagate circa il 13% in meno rispetto ai loro omologhi uomini.

La formazione continua per i dirigenti e tutte le alte professionalità che lei rappresenta è percepita come un “incentivo” che impatta sulla competitività nel mercato del lavoro?

La formazione continua è una leva strategica per rigenerare il mercato occupazionale, attraverso l’innesto di quelle competenze che oggi sono indispensabili per guidare la doppia transizione – ecologica e digitale – a cui il nostro Paese è chiamato, anche in forza degli impegni assunti sul piano internazionale. In un’UE che punta alla carbon neutrality entro il 2050, la sfida con cui il nostro sistema produttivo deve misurarsi è estremamente complessa. Ecco perché la nostra Federazione, attraverso percorsi come BeManager, punta alla certificazione delle competenze manageriali più richieste oggi dal mercato. Il lavoro che stiamo facendo con Confindustria per diffondere il profilo del manager per la sostenibilità, ad esempio, punta proprio ad accrescere la competitività del sistema in ambiti come l’energia e la finanza sostenibile, solo per citare un paio di esempi.

Come si coniuga la cultura del merito con il ricollocamento dei manager nel mercato del lavoro?
Poiché crediamo profondamente nel merito, non ci accontentiamo solo di formare i manager, ma a chi è fuori vogliamo garantire un ricollocamento stabile e di prospettiva. L’obiettivo non è quello di “mettere una toppa”, ma di offrire una chance che sia all’altezza delle legittime ambizioni di un manager. Ecco perché, grazie a una straordinaria espressione della nostra bilateralità con Confindustria, come l’Associazione 4.Manager, abbiamo promosso il progetto “Rinascita manageriale”, che sostiene le imprese che assumono un manager inoccupato in quattro settori strategici: innovazione e digitalizzazione, sostenibilità, organizzazione del lavoro post-Covid ed export. È un modello win-win: le aziende sono incentivate a dotarsi delle figure di cui hanno bisogno e per i manager inoccupati si apre una possibilità concreta di rimettersi in gioco.

Lei inoltre è anche docente e formatore, un consiglio per raggiungere maggiori traguardi e migliori performance lavorative?
Il mio consiglio è quello di non accontentarsi, di puntare al massimo e di non smettere di aggiornarsi costantemente. Perché se è vero che, parafrasando il grande Eduardo, gli esami non finiscono mai, è altrettanto vero che molteplici sono le occasioni di formazione per guardare al di là dei confini in cui la lunga emergenza pandemica ha provato a rinchiuderci. C’è poi, a mio avviso, un aspetto ulteriore di cui tenere conto: per sviluppare le cosiddette soft skill e capacità relazionali, è altrettanto importante il coinvolgimento in forme di socialità piena, come le diverse attività associative che Federmanager promuove. Da quelle pensate per un consolidamento del networking agli interventi con finalità solidale, che attraverso la nostra Fondazione Vises Ets portiamo avanti. È così, spaziando tra i differenti contesti e tra le potenzialità della professione, che il manager può davvero raggiungere uno sviluppo pieno della propria persona, non solo in ambito lavorativo, ma all’interno della società.

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