Dice Papa Francesco: “Il riconoscimento e la ricompensa del merito e dello sforzo umano hanno un fondamento, ma c’è il rischio di concepire il vantaggio economico di pochi come guadagnato o meritato, mentre la povertà di tanti è vista, in un certo senso, come colpa loro”.
Centra un punto cruciale il Pontefice a proposito della “cultura del merito”, eterno tema di dibattito e di contrapposizione anche politica. Per approfondirlo ne abbiamo parlato con Orazio Schillaci, docente di Medicina nucleare, già rettore dell’ateneo romano di Tor Vergata, autore di oltre 350 pubblicazioni scientifiche internazionali, ministro della Salute del governo Meloni.
Che cos’è per lei il merito, la cultura del merito?
La cultura del merito è riconoscere le qualità di ciascun professionista nell’ambito della sua attività lavorativa. Una persona meritevole è quella che ha passione, che ci mette impegno, che ha la capacità di portare a termine gli incarichi che riveste a seconda del proprio ruolo.
Ministro, per parlare di merito – come ammonisce il Papa – bisogna anche riflettere sulle disparità sociali ed economiche che i sistemi meritocratici possono, a volte, rafforzare anziché correggere. Insomma il rischio è quello di premiare chi parte già avvantaggiato.
Il merito dev’essere indipendente da dove uno nasce, dalla famiglia da cui proviene, dalle capacità economiche di cui dispone. È chiaro che chi viene da una regione più difficile o da una famiglia meno abbiente forse ha più difficoltà, ma il merito deve servire proprio a superare le disparità che ci sono ancora in Italia in tanti campi. Certo, ci vogliono condizioni di partenza uguali, però credo che ci sono delle persone che se hanno delle grandi qualità, magari anche partendo da una posizione più svantaggiata, riescono a superare l’handicap e questo è ancora più significativo.
E come la mettiamo con i criteri di valutazione, dovrebbero essere super partes…
Se bisogna valutare per premiare ci vogliono dei criteri oggettivi che siano indipendenti da chi valuta le persone. Io vengo dal mondo scientifico, quindi credo che debbano esserci dei criteri condivisi e trasparenti. Per la ricerca scientifica, ad esempio, esistono pubblicazioni che hanno dei parametri riconosciuti dalla comunità internazionale, il cosiddetto impact factor, che è già una valutazione nei confronti di chi pubblica su determinate riviste o ha un certo numero di citazioni.
E l’Università italiana, il mondo accademico che lei ben conosce, sa riconoscere il merito?
Direi proprio di sì. Da più di dieci anni per l’Università italiana c’è un organismo che è l’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema Universitario e della Ricerca, ente pubblico vigilato dal MUR, ndr) che valuta i singoli docenti e gli atenei. I professori universitari sono stati i primi che si sono fatti valutare senza averne paura, insomma non sono
più da tempo autoreferenziali.
Siamo in un Paese fortemente polarizzato, guelfi e ghibellini: per lei il merito è di destra o di sinistra?
Il merito non è né di destra né di sinistra. Come dico spesso, se mi dovessi far operare da un chirurgo vorrei che mi operasse il chirurgo più bravo non quello che ha una tessera di qualche partito.
La sanità è probabilmente la più importante infrastruttura sociale di un Paese: quanto conta e quanto è riconosciuto il merito in Sanità?
La Sanità è ritornata al centro del dibattito sociale e politico dopo la pandemia che ha dimostrato quanto siamo fragili e quanto sia importante la salute globale. La cultura del merito deve entrare in Sanità, oggi si fa un gran dibattito sui finanziamenti della sanità pubblica ma, oltre ad avere risorse adeguate e che spero crescano, bisogna avere una cultura per la quale i soldi pubblici che investiamo siano usati in maniera adeguata. Insomma, è necessario essere attenti alla qualità delle prestazioni e anche all’appropriatezza: le persone vanno curate per ciò di cui hanno bisogno, nel miglior modo possibile e nei tempi giusti. Durante la pandemia abbiamo visto il merito di medici, infermieri, di tutti gli operatori sanitari che hanno speso la loro professionalità per la salute degli altri ed è un esempio che andrebbe premiato e riconosciuto. Non solo da un punto di vista economico ma anche qualitativo: dobbiamo farli lavorare meglio in termini di riorganizzazione e far sì che si sentano apprezzati per quello che fanno e non debbano andare incontro a quello che sta avvenendo sempre più spesso, come le aggressioni nei pronto soccorso o negli ospedali, un fenomeno allarmante. Vareremo a breve misure per riconoscere a chi lavora in condizioni particolarmente disagevoli, come nella medicina d’urgenza, di emergenza, nei pronto soccorso, una valorizzazione economica ma anche maggior sicurezza. E poi occorre un riconoscimento in termini di carriera, che tenga conto dell’impegno quotidiano che mettono contesti difficili.
Le scienze della vita, la ricerca scientifica hanno fatto e fanno passi da gigante. Come valorizzare le competenze e la formazione?
La formazione in medicina è fondamentale perché ci sono continui progressi e gli operatori devono essere aggiornati, ci
vogliono dei programmi di educazione continua sempre più attenti. Con le nuove tecnologie oggi siamo in grado di sconfiggere malattie che fino a qualche anno fa erano considerate incurabili, quindi c’è bisogno di una formazione continua sulle novità che arrivano dalla ricerca e dall’innovazione tecnologica. Comunque i medici italiani sono tra i migliori al mondo.
Come si fa a garantire agli italiani uguali condizioni di accesso alle cure visto che la Sanità è gestita dalle Regioni e conosciamo le grandi differenze da territorio a territorio, differenze che alimentano il fenomeno del cosiddetto turismo sanitario?
È vero, purtroppo ci sono ancora grandi disparità e il nostro faro dev’essere l’articolo 32 della Costituzione. Credo che
i fondi del PNRR, che sono dedicati essenzialmente ad un rafforzamento della medicina territoriale e all’innovazione
in sanità che è rappresentata dalla digitalizzazione, possano essere degli strumenti molto utili per superare le disparità
legate al luogo nel quale si vive, alle possibilità economiche o al fatto di risiedere in una grande città o in un’area rurale o montana. Sono convinto che se ci sarà, come stiamo facendo, un vero cambio del sistema sanitario, una modernizzazione, tante diseguaglianze potranno essere superate.
Già, la medicina territoriale è la vera sfida. Il PNRR prevede tra l’altro la realizzazione di Case della comunità. Basteranno?
La pandemia ha dimostrato da un lato la grande qualità degli operatori sanitari, dall’altro la debolezza del sistema sanitario soprattutto per quanto riguarda la medicina territoriale. Gran parte dei problemi che oggi vediamo nei pronto soccorso, come il sovraffollamento, sono dovuti al fatto che spesso per i pazienti rappresentano l’unico punto dove possono trovare una risposta ai loro bisogni di cure, anche urgenti. Quindi sviluppare con le Case di comunità un modello di medicina territoriale è fondamentale ma il grande problema è che il PNRR prevede fondi solo per le infrastrutture e non per il personale che ci dev’essere per assicurare le cure ai cittadini. È la vera sfida che stiamo affrontando con convinzione, confrontandoci con i medici, gli infermieri, con tutti gli operatori sanitari per modernizzare il sistema affinché anche nelle Case di comunità possano lavorare i professionisti.
Siamo afflitti dalla carenza di medici ed infermieri, mille medici ogni anno lasciano l’Italia alla ricerca di stipendi più
adeguati: in cosa abbiamo sbagliato?
Purtroppo negli anni il nostro sistema sanitario nazionale è stato de-finanziato, ha perso attrattività e quindi molti giovani che si sono formati in Italia, dove abbiamo delle ottime scuole e università con un costo che viene sostenuto dallo Stato, hanno preferito andare all’estero dove trovano delle migliori condizioni di lavoro e anche una maggiore soddisfazione economica. Ma farei un distinguo: abbiamo un rapporto tra medici e infermieri che è il meno vantaggioso per quanto riguarda gli infermieri rispetto ad altre nazioni europee e su questo stiamo cercando di trovare una soluzione. Sui medici il discorso è un po’ diverso, sicuramente avremmo avuto bisogno oggi di più medici, infatti si stanno rivedendo al rialzo i numeri delle persone che potranno iscriversi a Medicina ma poi bisogna rendere più attrattivo il SSN e far sì che i medici che si formano in Italia rimangano qui.
Una delle accuse rivolte al centrodestra è che voglia favorire la sanità privata. È vero? E si può prescindere da un’alleanza tra pubblico e privato?
Oggi ci sono delle strutture private convenzionate che offrono dei servizi ai cittadini e che devono mettere a disposizione, come avviene nel pubblico, determinate prestazioni. Ci vuole una sana e convinta sinergia tra il privato convenzionato e il pubblico nell’interesse dei cittadini. Ad esempio sulle liste d’attesa: se una persona ha bisogno di una determinata prestazione deve sapere che può prenotarla in regime convenzionato, sia in una struttura pubblica pura che in una struttura privata convenzionata. E questo è importante per far capire ai cittadini qual è la reale offerta sanitaria presente sul territorio nazionale.
Liste d’attesa, l’altra grande sfida della nostra sanità. Tutti promettono di ridurne i tempi: a che stiamo?
Abbiamo un ritardo accumulato su tante prestazioni dovuto purtroppo alla pandemia, tante visite anche oncologiche sono saltate. Nel Milleproroghe abbiamo messo 360 mln a disposizione delle Regioni per cercare di recuperare delle prestazioni, ma bisogna lavorare incentivando il personale a stare di più nelle strutture pubbliche e sull’appropriatezza, cioè far sì che i cittadini siano presi in carico dal proprio medico di famiglia o da una struttura sanitaria e che gli esami necessari, indifferibili, siano effettuati nei tempi dovuti.
Siamo un Paese sempre più vecchio, cresce la popolazione affetta da più patologie o in condizioni di non autosufficienza. Per le famiglie prendersi cura di queste persone, oltre ad essere costoso, implica rinunce e sacrifici. A che punto è l’assistenza domiciliare?
Abbiamo dei target da rispettare ed è uno degli obiettivi del PNRR. Da poco è stato approvato un DDL sugli anziani
e dobbiamo capire quanto è importante, finché è possibile, tenere le persone a casa con un’assistenza domiciliare. Un aiuto verrà dalla telemedicina ma dobbiamo investire anche in prevenzione che è l’unico strumento per far sì che di fronte all’allungamento della vita non ci sia poi un aumento delle malattie croniche non trasmissibili.