Renzo Rossellini - Regista cinematografico • Non ho mai fatto film di genere

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Ha esordito giovanissimo come regista con il film a episodi L’amore a vent’anni. Voleva fare il regista?

No, non volevo fare il regista.

Quali erano le sue aspirazioni?

Ho cominciato come documentarista. Era il momento storico dei movimenti anticolonialisti nel mondo e io avevo dei principi rivoluzionari. Ho fatto la guerra di Algeria, il Congo, ho conosciuto a Cuba Che Guevara, ho contributo alla creazione del Centro di documentazione tricontinentale, per documentare le lotte che si facevano nei tre continenti, Africa, Asia e America Latina. Stavo con uno chassis sulle spalle e una pistola alla cintura! Credevo fosse importante occuparmi di questioni politiche, poi mio padre, molto preoccupato di avere un figlio in mezzo alle pallottole, mi ha voluto come suo aiuto regista. Da Il generale Della Rovere ho iniziato a lavorare con lui.

Politica e cinema. Come ha esordito alla regia nel film a episodi L’amore a vent’anni?

Avevo fatto l’assistente volontario di François Truffaut nel suo primo film, I 400 colpi. L’amore a vent’anni è nato con l’episodio di Truffaut [Antoine e Colette, n.d.r.] come primo motore del progetto, poi lui mi ha chiesto di collaborare con un episodio mio. Il produttore ha accettato ed è nato il film a episodi.

Che ricordi ha de I 400 colpi?

Nella parte preparatoria stavo vicino a Truffaut, che era anche lui una specie di figlio di mio padre, come Jean-Luc Godard. Mi ricordo quando bisognava cercare l’attore e i provini fatti da Jean-Pierre Léaud, che poi è diventato l’alter ego di Truffaut.

Quali erano i rapporti tra Roberto Rossellini e la famiglia Schlumberger?

Mio padre ha conosciuto Pierre Schlumberger in un aereo per gli Stati Uniti. Sono entrati come soci nella Orizzonte 2000, poi hanno comprato la Gaumont. Quando è morto, loro si sono rivolti a me: “Roberto ci ha sempre parlato di te come la persona che ne capiva quanto lui”. Così mi hanno dato l’incarico di occuparmi della Gaumont in Francia e poi da lì ho creato la Gaumont Italia. In Francia, il primo film che abbiamo distribuito era Prova d’orchestra di Federico Fellini.

Com’è stato il rapporto con Fellini?

Intanto ho dovuto ricostruire un rapporto tra lui e mio padre, che lo considerava un suo allievo. Fellini era stato sceneggiatore di Roma città aperta perché Aldo Fabrizi ha chiesto di prendere lui quando ha letto la sceneggiatura, che ovviamente era tragica, non capendo l’obiettivo di mio padre di dimostrare che fra i martiri dell’antifascismo c’erano stati sia un prete che un antifascista. Era un film del compromesso storico, come mi ha detto Aldo Moro al funerale di papà.

Si è avvicinato, mi ha preso sottobraccio per farmi le condoglianze e ha detto: “Io e tuo padre avevamo lo stesso obiettivo, di mettere insieme le due anime popolari dell’Italia, quella cattolica e quella comunista”.

A papà La dolce vita non era piaciuto: gli era sembrato un tradimento del cinema del neorealismo. Io ho capito che Prova d’orchestra era un film politico, una metafora sull’Italia di quel momento. L’ho fatto a vedere a mio padre e lui ha detto a Fellini quanto gli fosse piaciuto quel film: da quel momento è ricominciato il rapporto tra di loro.

Com’era Moro?

Era un cinefilo, amico di mio padre. Amava la cultura, spingeva all’interno della Democrazia Cristiana perché il partito fosse attento alle novità culturali. Era una persona di grandi qualità. L’ho seguito fino al rapimento.

C’è stato quell’episodio…

A Roma Città Futura l’avevo quasi preannunciato. Quel giorno [il 16 marzo 1978, n.d.r.] veniva formato il primo governo con Democrazia Cristiana e Partito Comunista. Io avevo seguito tutta la fase della strage di Stato, l’ingerenza dei servizi segreti e quindi ho pensato che le Brigate Rosse si sarebbero manifestate, come facevano spesso nei momenti politici cruciali. Ho fatto questa analisi e l’ho detto alla radio. Quaranta minuti prima dell’attentato.

Dopo cosa ha pensato?

Che avevo avuto ragione. Mi sono ritrovato nei vari processi Moro e alle sedute della Commissione Parlamentare per quello che avevo detto alla radio.

Suo padre cosa ha detto della radio?

Era contento perché era una cosa di Renzo Rossellini. Mi spingeva a essere me stesso, a sviluppare le mie attitudini. Mi stimava per quello che sapevo fare: la comunicazione. Ho seguito tutto il movimento del ’77. Dopo la morte di papà mi sono dovuto preoccupare di mantenere la famiglia. Sono diventato un produttore.

Il marchese del grillo di Mario Monicelli?

Io sono ricordato più per Il marchese del grillo che per Bergman! Tra l’altro, ho prodotto Il marchese del grillo proprio per finanziare anche Bergman, per la libertà di dire in Francia: “Lo finanzio io”. Sordi aveva questa idea e ne aveva parlato con mio padre, che non l’ha voluto fare. Alberto mi ha detto: “Con Roberto volevamo fare Il marchese del grillo”. “E facciamolo! Prendiamo Mario Monicelli, che è bravo e lo farà benissimo”.

Il mondo nuovo di Ettore Scola?

Mi era piaciuto, anche perché era l’ultima sceneggiatura scritta da Sergio Amidei. Era di famiglia. L’ho sempre frequentato. Riposa nella tomba di famiglia Rossellini al Verano perché, proprio mentre mi veniva a parlare della sceneggiatura de Il mondo nuovo, mi ha detto: “Io sono nato in una città che adesso è Austria [risulta nato a Trieste, n.d.r.], siccome prima o poi morirò, non voglio essere seppellito lì”. Io gli ho risposto: “Certo non vai in Austria. C’è uno spazio per te nella tomba Rossellini”. Il giorno dopo è morto.

Identificazione di una donna di Michelangelo Antonioni?

Film poco amato. Antonioni aveva grandi qualità. Il problema è che molti cinefili lo amavano, però non era da grande pubblico: diceva che se un film è troppo amato, ha molti difetti!

Nostalghia di Andrej Tarkovskij.

Era uno dei film che mi ha fatto litigare con i padroni della Gaumont. Volevano grandi nomi. Ho convinto la Rai a farlo a metà con la Gaumont per portare Tarkovskij fuori dall’Unione Sovietica, dove era trattato come un dissidente e rischiava che gli arrestassero la famiglia. Infatti non è più tornato. Produrre un film significava cose di questo genere all’epoca.

Enrico IV di Marco Bellocchio.

Volevo fare un film con Marco. Lo stimavo come lo stimo ancora. Qualche anno fa abbiamo scritto pure una sceneggiatura sul caso Emanuela Orlandi. La sceneggiatura era pagata dalla Rai, ma quando l’hanno letta, con dentro servizi segreti, Ali Agca, la banda della Magliana, mi hanno detto: “No, non possiamo fare un film così”.

Perché ha deciso di lasciare la Gaumont?

Molti dei progetti che portavo non li accettavano, erano diventati un po’ hollywoodiani. Io volevo fare un film a episodi con Bergman, Kurosawa e un terzo regista. Non ci sono riuscito.

Quando è tornato in America, cosa ha fatto?

Ho insegnato all’università di Los Angeles e in altre università. Continuavo a insegnare a fare cinema seguendo la tecnica che aveva sviluppato mio padre quando è stato presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia, alla fine degli anni Sessanta: fare cose pratiche, mettere gli allievi dietro alla macchina da presa perché il cinema si impara facendolo, non ci sono libri che ti insegnano.

Chi frequentava in America?

Attori, registi, colleghi produttori. Scorsese era uno di famiglia, avendo sposato mia sorella Isabella. A Francis Ford Coppola avevo prodotto un film.

Ha distribuito 9 settimane e 1⁄2?

Sì. Ho avuto fiuto. L’avevo visto in America e ho convinto Nemni a fare questo investimento comprando i diritti per tutta l’Europa.

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