Monsignor Vincenzo Paglia • Abbracciare i propri limiti per il benessere dello spirito

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Se c’è un insuccesso, un fallimento non cantiamo certo il Te Deum. Quel che deve restare però è l’energia creativa che non si lascia sopraffare dalla sconfitta. Non sono parole di un consulente aziendale, ma di Mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, consigliere spirituale di Sant’Egidio e già a capo della Commissione per la riforma dell’assistenza sociosanitaria per la popolazione anziana. Le sue risposte sul tema del fallimento rivelano l’entusiasmo, la “missione” e la personalità di uno degli uomini più vicini a Papa Francesco, molto ascoltato anche dal mondo laico per la sua cultura e apertura mentale.

Monsignor Paglia, il fallimento può ingenerare un senso di colpa?

Il fallimento richiama innanzitutto l’indispensabile senso del limite, a non ritenersi il Padreterno, e noi siamo segnati radicalmente dal limite. Di fronte al fallimento, che non dev’essere annichilimento, è doveroso fare un esame di coscienza sul perché è accaduto e da qui deriva il senso di colpa per gli errori che sono stati fatti. L’uomo però non deve soccombere ma analizzare il tutto in maniera critica, compresi i limiti e gli errori, per poi riscattarsi. Non c’è solo il bianco o nero, ognuno di noi conosce bene i propri limiti.

Cosa ci insegnano gli insuccessi? E per un cristiano che cosa rappresenta?

Una cosa è l’insuccesso, un’altra è il peccato.  Il peccato è un insuccesso sulla via del bene perché non siamo stati vigili, perché ci siamo lasciati prendere da spiriti egocentrici o dall’indifferenza e in questo caso il peccato è un’offesa, una ferita a Dio e alla creazione. L’insuccesso è diverso. Non è semplicemente attribuibile al soggetto, ci sono tante concause che magari non sono state esaminate, ma questo non fa parte della colpa morale. Gli insuccessi possono avvenire anche perché, ad esempio, l’ambiente non capisce o c’è chi prevarica. Distinguerei molto l’insuccesso dagli errori morali.

Per un uomo di chiesa che cos’è il fallimento? Sentire vacillare la vocazione, dubitare, non credere più?

Direi di no. Il dubbio fa parte della fede perché la fede non è semplicemente adesione a delle verità astratte ma è quella di un uomo o di una donna che si affida a Dio. La fede fa parte di una dimensione di innamoramento e allora di fronte alla storia – perché la fede richiede di trasformare la storia, di renderla bella per tutti – questa dimensione comporta molti dubbi, difficoltà ma senza mai perdere la fiducia che saremo aiutati. Faccio un esempio lampante dal Vangelo: se prendiamo il discorso di Gesù a Cafarnao, in una sinagoga affollatissima, quando lui dovette affermare che la sua carne era vero cibo e il suo sangue vera bevanda tutti si scandalizzarono e andarono via. Insomma, fu un insuccesso pazzesco, ma questo insuccesso agli occhi degli uomini non è detto che sia un insuccesso agli occhi di Dio, in quel momento Gesù non poteva tradire il suo convincimento ma confidava nell’aiuto del Padre che non l’avrebbe abbandonato come invece fecero tutti. Quando mi dicono “beato te che credi” io rispondo: “ma sapete che credere mi crea preoccupazione tutti i giorni e tutte le notti, è una tensione continua”. 

Siamo una società sempre più vecchia: non essere riusciti a tutelare i nostri anziani, a prendersene cura, a farli sentire attivi socialmente è un fallimento?

Purtroppo c’è anche una colpa morale: quella di abbandonare chi, segnato dagli anni, è sentito come uno scarto, come un peso, costa e non produce. E in una cultura mercatista è chiaro che questa concezione porta delle conseguenze drammatiche per coloro che sono deboli e senza protezione. Ma finalmente c’è stata una reazione, una prospettiva positiva grazie all’approvazione della legge delega che contempla una nuova visione per la vecchiaia. È una grande sfida, certo, ma l’Italia ora si è dotata di uno strumento che può portare sulla giusta via l’impegno di responsabilità verso gli anziani.

Qual è il più grande fallimento di quest’epoca?

Secondo me è quello della mancata prospettiva della fraternità. È nato un nuovo culto, l“egolatria”, il culto dell’io, che ha distrutto la sensibilità per il “noi”. Purtroppo la globalizzazione del mercato non ha favorito la globalizzazione della solidarietà. Il rischio che ciascuno si ripieghi su sé stesso e sui propri interessi è la ragione delle guerre, della fame e persino della pandemia.

Monsignor Paglia, quando arriva nella vita il momento dei bilanci?

Il tempo della vecchiaia può avere un vantaggio rispetto alle altre età (in tutte le età bisogna fare bilanci) perché si trova sulla soglia dell’eterno, nel senso che il bambino vuol diventare giovane, il giovane vuol diventare adulto, l’adulto vuol diventare anziano. E l’anziano? C’è quell’eterno che vuol dire consegnare alle altre generazioni quello che si è vissuto perché c’è il giudizio della storia. Io faccio parte della prima generazione di “vecchiaia di massa”, non era mai accaduto prima, e noi abbiamo il dovere di fare un bilancio: insomma o inventiamo la vecchiaia per tutti oppure le generazioni a venire si troveranno una vecchiaia sbagliata. Viviamo un tempo che chiede a tutti, soprattutto agli anziani, di non tirare i remi in barca: sani o meno sani, fragili o più forti, centenari o meno, dobbiamo continuare a vivere per il bene degli altri.    

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