Donne in tv: gender inclusive o pink washing?

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Pensando alle donne che ci hanno incollato allo schermo negli ultimi anni, a personaggi femminili dalle personalità magnetiche, la sensazione immediata è che si proceda a grandi passi verso un’equa rappresentanza di genere nel settore dell’intrattenimento. In particolare nella produzione tv, specie da quando questa ha conosciuto un’enorme espansione globale con l’avvento delle piattaforme streaming. Uscendo però dal mero campo della percezione e delle opinioni da divano, a spulciare i dati effettivi sulla rappresentanza di genere si scopre che questa patina glamour di rinnovato femminismo rischia di tradursi in mero pink washing (la pratica ipocrita di mostrare sensibilità verso tematiche di genere per puro ritorno d’immagine) e ammantare una realtà fatta ancora di differenze radicate.

Ad esempio, il Geena Davis Institute on Gender in Media, istituto fondato dall’attrice premio Oscar e attivo nella ricerca orientata a raggiungere equità culturale e inclusione nei media, ha raccolto, nel suo report annuale See Jane, i dati relativi alla presenza di personaggi femminili nei programmi tv e film di maggior successo della tv generalista e via cavo americana: tra il 2016 e il 2020 le donne protagoniste o co-protagoniste nelle dieci maggiori produzioni tv sono state solo il 26,9% del totale, nonostante il genere femminile rappresenti il 51% della popolazione. Presenti stabilmente in ruoli da non-protagonista, tra il 39% e il 45%, le donne vantano una crescita in termini di rappresentanza solo in ruoli minori, passati dal 37,8% al 52,7% nel quinquennio.

Ma il tema dell’inclusività è intersezionale, proprio come il femminismo di nuova generazione: va perciò sottolineato come ad essere sotto-rappresentate non siano solo le donne, ma anche le persone di colore nel complesso, che rappresentano il 40% della popolazione Usa ma ottengono ruoli da protagonisti nel 15,1% dei casi, mentre hanno raggiunto la parità nel 2020 solo in ruoli di spalla e secondari. Restando in una visione intersezionale, per lo stesso report c’è ancora molta strada da fare anche per la comunità LGBTQ+ che, pur rappresentando il 5,6% degli statunitensi, non ha espresso alcun protagonista nei format tv più popolari, subendo inoltre un decremento di presenza nei ruoli secondari (solo l’1,3% nel 2020).

Più incoraggiante il fronte streaming: per le statistiche di womenandhollywood.com, che monitora il gender gap nell’industria cinematografica globale, nell’annata 2019/2020 il 42% dei contenuti in streaming aveva “protagoniste femminili uniche chiaramente identificabili”, alla pari di quelli maschili, e le persone LGBTQ+ hanno fissato il record del 10,2% (tra Netflix, Amazon e Hulu sono emersi 109 personaggi regolari e 44 ricorrenti). Attenzione però alla trappola dello stereotipo di genere: due terzi dei personaggi femminili principali erano donne bianche e per il 52% rappresentate in ruoli familiari come mogli e madri (contro il 38% dei maschi).

Chiaramente la presenza femminile sullo schermo e il modo in cui è espressa incide inevitabilmente sul tipo di storie che vengono raccontate, sui valori veicolati e sull’incidenza che il prodotto di intrattenimento ha sull’immaginario collettivo, soprattutto quello dei giovani nell’età della formazione. Viene allora da chiedersi se gli straordinari personaggi di Olivia Pope che domina la Casa Bianca in Scandal, di June Osborne che combatte il patriarcato ne Il Racconto dell’Ancella o di Annalise Keating che combatte il razzismo del sistema giudiziario americano ne Le Regole del Delitto Perfetto non siano, per ora, solo la foglia di fico di un settore che continua a esprimere ancora perlopiù punti di vista prettamente maschili.

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