Paola Mastrocola, col marito Luca Ricolfi, rappresenta il segno di un’Italia che ha come obiettivo la maturità e indipendenza di giudizio, che rifiuta la radicalizzazione e la spaccatura in poli opposti, che quindi è a favore del principio del Terzo incluso in nome dell’approfondimento, dell’indipendenza di giudizio e di una libertà reale.
Per questo Luca Ricolfi ha scritto “Società signorile di massa” (2019), un corto circuito contro il giornalismo d’accatto fatto di luoghi comuni, e anche contro la falsa percezione che la società italiana ha di se stessa.
“Il danno scolastico, la scuola progressista come macchina della diseguaglianza”, saggio edito da La nave di Teseo scritto a due mani da Mastrocola e Ricolfi, approfondisce i temi de La Società signorile. Ci auguriamo che ci siano ulteriori declinazioni di un percorso ricco di rivelazioni, a partire dalla politica e dalla comunicazione.
Paola Mastrocola ha insegnato sia nei licei sia nelle sedi accademiche: conosce ciò di cui delinea i limiti, come fa da ormai molti anni, sia come saggista sia come autrice di romanzi “per giovani adulti” (se può esistere una letteratura con un target ghettizzato). La scuola è al centro della sua attenzione biografica e intellettuale, non solo in pamphlet come “Togliamo il disturbo“. Saggio sulla libertà di non studiare. Nel romanzo Non so niente di te, la fuga del protagonista da una istituzione elitaria come Stanford non è rappresentata in stile documentario Discovery: si parla di una scelta di vita e per la vita. Idem per “Più lontana dalla Luna“, un’altra storia di fuga dalla scuola in favore della vita in un territorio naturale, ma non edulcorato, come nel Walden di H. D. Thoreau. I libri e l’auto apprendimento sono anche il filo conduttore de L’esercito delle cose inutili (2015). Di seguito la nostra intervista.
Cosa può fare oggi una famiglia normale (diversa da quelle di Leopardi o di Goethe i quali a dieci anni traducevano dal greco e dall’ebraico, e che come insegnanti avevano genitori che conoscevano molte lingue e avevano biblioteche e pinacoteche), per sfuggire alla massificazione della scuola?
A me piacerebbe che le famiglie normali – come giustamente le chiama lei – si ribellassero e scendessero in piazza a fare la rivoluzione, a protestare contro una scuola che non è più niente, che offre solo un posto dove stare, dove socializzare, progetti divertenti e per il resto un’infarinatura generale, e tanta educazione al conformismo. Ma non lo faranno, le famiglie, di scendere in piazza. Primo, perché a tante va bene così, che i figli si divertano e stiano sereni a scuola; secondo, perché per protestare bisognerebbe accorgersi del disastro culturale e cognitivo, e del danno irreversibile che la scuola causa ai loro figli; terzo, le famiglie sono rassegnate, sanno che nulla si può cambiare, e quindi chi può s’arrangia pagando lezioni private a gogò ai figli, e gli altri, quelli che non se lo possono permettere, pazienza, affogano. È proprio per denunciare questo che abbiamo scritto Il danno scolastico! Comunque, chi può, il figlio se lo tenga a casa e gli faccia lui scuola, o cerchi un buon istitutore privato. La strada-Goethe, sì, è l’unica per salvarsi. Ovviamente impraticabile (e per niente democratica).
Penso a film come “Paper Moon” di Bogdanovich, oggi incomprensibile, anche se vi si parla della vita reale di una bambina degli anni ‘30. Penso anche ai “Cautionary tales” dell’età vittoriana, florilegi di un’educazione determinista: “Se fai questo, arriva il Grande Sarto che ti taglierà un dito”. Come muoversi tra letteratura prescrittiva, quella realista, quella aperta e non ideologica alla Mark Twain o Lewis Carroll, e quella nuova: orwelliana, disneyana e ipereducativa? Quale è la sua idea di letteratura?
La mia idea di letteratura, per prima cosa, è che la letteratura non c’è più. La letteratura era una cosa seria, con tanto di regole, canoni, generi. E soprattutto era qualcosa di avulso dal sistema, dal mercato, dal consumo, e dalle classifiche. L’abbiamo sostituita con la cosiddetta scrittura creativa, che si può imparare quindi insegnare, quindi è alla portata di tutti, basta fare un corso; e con la scrittura tout court: dicono che non abbiamo mai scritto tanto: riferendosi all’uso dei social…! Il libro dunque è solo più l’oggetto-libro, un prodotto come un altro, che bisogna vendere come le marmellate o i piselli. Mi fa paura la letteratura pedagogica e ammaestrante, che vuole insegnarci a vivere, dirci quali sono i sentimenti giusti e salvare l’ambiente, il pianeta, la galassia. Aiuto! Vorrei una letteratura libera, ariosa, sganciata dal potere, dai media, dai luoghi comuni, dalla dittatura del politicamente corretto. L’arte è libertà. È opposizione. È l’alternativa al mondo, non complice o serva.
Mia moglie (maestra nella scuola primaria), dice che il disastro della scuola è cominciato dopo l’introduzione del “Tempo pieno” (8 ore ogni giorno a sei anni). All’inizio i tempi erano rilassati e le due maestre avevano modo di insegnare, perché la didattica era al centro. Poi sono arrivate altre cinque e più “figure di insegnanti” oltre ai laboratori con “esperti” spesso legati al Comune. Non resta tempo per insegnare a scrivere e far di conto correttamente, visto che l’uso di immagini al posto di parole scritte limita il ragionamento e le sinapsi. Non c’è più spazio per la didattica nella scuola? Cosa vi si insegna quindi e cosa si dovrebbe fare per restituire a giovani e adulti una libertà reale e una “volontà di sapere” senza limiti?
Già ne “La scuola raccontata al mio cane” (2004) mi lanciavo in una folle utopia: far scuola solo tre ore al giorno e poi “liberare” i ragazzi, cioè dar loro davvero un “tempo libero” perché possano trovare, in sé, le loro vere passioni. Invece gli abbiamo dato il “tempo pieno”! Li abbiamo ingolfati di roba, ingozzati di progetti, incontri, laboratori, corsi… E poi sì, abbiamo i bisogni speciali, gli immigrati, le dislessie… La scuola che vogliamo oggi, più che insegnare, tiene insieme e aiuta. È meravigliosa, niente da dire. Ma paga un prezzo: deve far fuori la cultura. Non è più quel che le importa, è evidente. Le materie, le discipline, le cose da insegnare: basta, roba antiquata, non interessa a nessuno, e soprattutto non serve più: c’è internet, c’è la tecnologia, il G5, il 3D, i blog, messenger, instagram, tik tok. Non c’è posto per Aristotele, Omero, le stupende poesie di Orazio (in latino!), Shakespeare, Petrarca… e Goethe. Peccato che il prezzo vero lo paghino i ragazzi: azzerate le conoscenze, e disattivate le capacità di pensiero, analisi, ragionamento. Ma per favore non lamentiamoci, e nemmeno organizziamo convegni o finanziamo ricerche per capire le cause dello spaventoso abbassamento dell’istruzione italiana: lo abbiamo fortemente voluto noi, e oggi più che mai lo vogliamo! Siamo noi la causa, dunque guardiamoci allo specchio e congratuliamoci con noi stessi: abbiamo finalmente la scuola perfetta, che non insegna quasi più niente, non prepara a nessun lavoro né percorso di studi più arduo, e non arricchisce più la mente, e la vita, di nessuno. In compenso tiene insieme, accoglie, include, sostiene, e ammaestra. È stata dura ma ce l’abbiamo fatta! Lei mi chiede della libertà, dei giovani e degli adulti: mi spiace, non pervenuta. Ma la cosa grave è che nessuno se ne accorge, di non essere più libero: tutti pensano di vivere nel Paese di Cuccagna dove possono divertirsi quanto vogliono. Ed è appunto questa la non-libertà, cioè lo stato di schiavitù in cui viviamo!
La missione educativa di una nazione non dovrebbe essere proprio quella di (provarsi a) trasformare le masse in élite, invece di degradare le élite in masse drogate dall’egualitarismo progressista e “don-milanista”? Non è questione di tornare alla scuola classica, ma di realizzare anzi un progresso reale e non finalizzato e fittizio…
Lei ha toccato il centro della questione: alzare, non abbassare. Questo dovevamo fare! Invece abbiamo pensato che, per essere più democratici ovvero “includere” tutti, era bene abbassare, livellare, spianare. Abbiamo segato le montagne, capisce? Per ottenere una pianura gigantesca, dove tutti possano camminare agevolmente senza fatica. Ma lei conosce la bellezza di scalare una montagna, la felicità di arrivare in cima? Ecco, questo abbiamo tolto ai nostri ragazzi. In nome dell’uguaglianza. Ma se uguaglianza vuol dire stare tutti immersi in una palude stagna, e che nessuno mai alzi la testa, allora no grazie. Preferirei un mondo dove nessuno sta più affogato nella palude, tutti camminano all’aria aperta, anche in salita, se necessario. Anzi, li porterei tutti in cima al Monte Bianco. Questo dovevamo fare: far salire anche gli svantaggiati, invece di affossare i privilegiati, per garantire di essere tutti uguali.
Reputazione e scuola. Qual è la reputazione di cui godono le nostre scuole e i nostri laureati e diplomati all’estero? Una figlia di amici, diplomata col massimo (100) in un liceo classico ligure, svedese per parte di madre, che voleva iscriversi a una facoltà svedese a numero chiuso, non ha avuto la parità di accesso di altri studenti anche non svedesi, perché diplomata in Italia.
La scuola è diventata un mercato più o meno tra il 1999 e il 2000, in pieno governo di sinistra. Da lì s’è cominciato a parlare di offerta, di utenza, e s’è capito che ogni scuola doveva competere con le altre per “acquistare” più utenti possibile, attirandoli con le “offerte” più stravaganti. Ovvio che era meglio offrire gite, corsi di lingua, educazioni alimentari o altre squisitezze extra-curricolari del genere, non certo approfondimenti di algebra astratta o corsi di grammatica o metrica latina… L’utenza non avrebbe certo scelto quella roba lì. Quindi, cosa vuole che le dica? È andata così. Sa cosa mi dispiace? Che l’unico elemento mai valorizzato, anzi, mai nemmeno preso in considerazione, sia l’insegnante. Non ho mai visto che una scuola mettesse tra le offerte gli insegnanti bravi che ha. Non può, certo; anche qui il diktat dell’uguaglianza imposto dalla scuola cosiddetta “democratica”: non si può distinguere tra insegnanti bravi e no. Anzi, per principio non esiste l’insegnante più bravo, bisogna negarne l’esistenza ancor prima, in linea teorica, a priori. Ed è un vero peccato, sa? Perché i giovani è di questo che avrebbero bisogno: di maestri. Cioè di bravissimi insegnanti. Che ci sono. Pochi, ma ci sono. E che ci guardiamo bene dal valorizzare. Li teniamo schiacciati bene a testa in giù come tutti, nella palude stagna.
Esiste uno specifico gap reputazionale per una donna che insegna e lavora? Su cosa potrebbe/dovrebbe eventualmente differenziarsi da un collega maschio?
La scuola purtroppo è il regno delle donne. Pochissimi docenti maschi, mosche bianche. Inoltre la scuola è la negazione di ogni carriera: si entra in un modo e si esce tal quali (anche lo stipendio, dopo trent’anni, aumenta di ben poco), nessun percorso, nessuna progressione di alcun tipo. Dunque mi verrebbe da dire che la scuola è il luogo perfetto della parità uomo donna: nel senso che non fa la minima differenza essere femmina o maschio, nulla sei e nulla rimani.