Annalisa Monfreda • Fallire può far bene alla reputazione

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Annalisa Monfreda è una giornalista, ed è stata direttrice di diverse testate, l’ultima delle quali il magazine Mondadori Donna Moderna.  

Da poco più di un anno ha creato insieme alla manager culturale Montserrat Fernandez Blanco, l’agenzia Diagonal (diagonalproductions.com) tra le più innovative e interessanti in Italia. Una realtà nella quale si creano progetti a metà tra la formazione e l’innovazione culturale, destinati ad aiutare le aziende «ad affrontare temi difficili con i propri dipendenti». 

Annalisa, cominciamo dai temi più “scomodi” sui quali lavora Diagonal.

Si tratta sempre di questioni delicate interne alle aziende, sulle quali è difficile intervenire in modo tradizionale. Abbiamo avuto per esempio una grande società di consulenza digitale che dopo la pandemia aveva bisogno di comunicare ai propri dipendenti, quasi tutti giovani, la necessità di lasciare lo smart working per rientrare in ufficio. O anche una importante banca di investimenti che aveva molta difficoltà a introdurre la questione della “diversity” in un ambiente a prevalenza maschile e in qualche modo ancora dominato dal “machismo”.

Come intervenite su queste problematiche?

Cerchiamo di trovare canali di comunicazione emotivi, perché la formazione classica, la lezioncina “adesso ti spiego come gestire il problema” in questi casi semplicemente non funziona. Prima di tutto c’è bisogno di creare una breccia attraverso un impatto emotivo forte, poi possiamo fornire gli strumenti che servono ad elaborare. Ad esempio lavoriamo attraverso percorsi di “conversazione”, vale a dire mini eventi, newsletter interne, podcast. Nel caso della società digitale abbiamo costruito “Uncomfortable talks”, un ciclo di incontri collettivi che ha scatenato grandi discussioni, mediati dal filosofo Andrea Colamedici. Per la banca invece, una newsletter dedicata, con una storia di partenza a tema diversity a cui si aggiungeva quella personale di un dipendente, e poi un evento di discussione mensile che riprendeva quel tema.

Il tema del fallimento è l’argomento centrale di questo numero di Reputation Review è anche uno dei vostri argomenti più caldi

Ci arriva dall’eredità della mia socia, che sette anni fa ha portato in Italia le “Fuckup nights”, eventi durante i quali i partecipanti raccontano le proprie sconfitte, utilizzandole come strumenti di crescita. Le aziende hanno cominciato a chiederci di portarle al loro interno: ci è capitato di vedere l’amministratore delegato di un importantissimo gruppo bancario salire sul palco a raccontare il proprio fallimento. 

Sembra un paradosso: perché le aziende vogliono parlare di fallimento?

Perché nel momento in cui desiderano innovare, il più grosso ostacolo è la paura di fallire. Siamo immersi in una cultura nella quale il fallimento è associato alla nostra identità, vale a dire, se il mio progetto non funziona sono io che non valgo nulla, non la mia idea. Oppure ci raccontano che dobbiamo fallire presto, perché così dopo avremo successo, o che dobbiamo chiudere subito i progetti che non vanno tanto bene. Noi organizziamo nelle aziende dei percorsi per smontare questa narrazione, e facciamo lavorare i partecipanti al racconto di una propria sconfitta da condividere in un evento finale catartico. L’obiettivo è staccare il fallimento dalla persona, e portarla a rischiare di più nella vita lavorativa. 

Lavorate molto anche sul fallimento economico. 

Molte delle aziende più evolute si sono rese conto che gran parte dell’ansia dei dipendenti scaturisce dall’idea di non farcela economicamente. Ma in realtà l’ansia finanziaria nasce dalla nostra incapacità di gestire il denaro, non perché ci manchino le competenze, ma perché c’è un grosso blocco psicologico verso il tema, che è ancora un tabù, un po’ come accadeva un tempo per il sesso. La nostra idea è invece è quella di offrire alle aziende strumenti che diano ai dipendenti l’opportunità di maneggiare la materia con un approccio nuovo, empatico ed emotivo.

Questo magazine parla di reputazione. Come si trasforma la connotazione negativa del fallimento in una reputazione positiva?

Quando ero direttrice di Donna Moderna mi trovai nel mezzo di una “shitstorm” per un tweet completamente fuori luogo.  Risposi con un post in cui dicevo: “è vero, abbiamo sbagliato, ma vi spiego il perché di questo errore” che diventò più virale del tweet incriminato. E ancora, quando poi mi dimisi dal giornale, alcuni colleghi mi consigliarono di chiedere all’editore un comunicato in cui si specificava che ero io a lasciare, e non loro a cacciarmi. Io invece volli raccontarmi in prima persona, spiegando che andavo via perché come direttore avevo fallito e ora avrei provato a realizzare il modello di business che avevo in mente in un’azienda mia. Subito dopo, incredibilmente, cominciai a ricevere chiamate da cacciatori di teste. Insomma: il proprio fallimento bisogna raccontarlo fino in fondo e con sincerità. È così che diventa un volano per la reputazione. 

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