Francesca Della Ragione • Prestare la voce a chi è in difficoltà

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Francesca Della Ragione è una giovane attrice, regista e produttrice che è stata la voce narrante all’interno del docufilm “Falliti”. L’abbiamo raggiunta per parlare di cosa abbia significato per lei ricoprire questo ruolo, e di cosa le abbia lasciato il raccontare le vite di persone che sono incappate in un dramma come quello del sovraindebitamento. Un’esperienza intensa e significativa che di certo non si è esaurita nelle fasi di produzione del documentario.

Cosa significa, per un’attrice come lei, prendere parte ad un docufilm di importante sensibilizzazione come “Falliti”?

Significa molto per me, è un aspetto del mio carattere. Se posso aiutare gli altri, lo faccio. Il mio obiettivo è quello di utilizzare i mezzi a mia disposizione per sensibilizzare il pubblico su importanti temi sociali, oltre a informare le persone su determinati argomenti, come la situazione delle persone sovra-indebitate. Questo tema, in particolare, in cui ho avuto l’onore di essere la voce narrante. Il docufilm non solo fornisce importanti informazioni e consigli, ma offre anche una soluzione per aiutare chi è sovra-indebitato a uscire dall’incubo. Con Gianmario Bertollo e Maria Sole Pavan, abbiamo cercato di portare la questione all’interno del dibatto pubblico e di aiutare chi ha bisogno. Credo sia importante sposare le cause sociali che sentiamo vicine. E quando mi è stata offerta la possibilità di essere la voce narrante di “Falliti”, non ci ho pensato neanche un secondo.

Come si è sentita ad interpretare questo ruolo? Ha riscontrato qualche difficoltà?

Inizialmente ho fatto la voce narrante di tutti i fatti, esponendo numeri e snocciolando il fenomeno. Alla fine, però, ero io quella donna sovra indebitata di cui avevo parlato in precedenza. Una situazione reale di una persona che ha preferito rimanere anonima. Come attrice, ho imparato che quando si interpreta un personaggio realmente esistito, bisogna entrare sempre in punta di piedi, portando rispetto alla persona che lo ha vissuto in prima persona. Dar voce e volto a questa storia è stato un’emozione profonda che ho voluto portare avanti con il massimo rispetto, sapendo di poter dare un contributo importante a chi potrebbe trovarsi nella stessa situazione.

Il termine “fallito” purtroppo diventa una vera e propria etichetta, com’è possibile secondo lei non essere sopraffatti dal peso di questa parola?

In una società in cui essere falliti è considerato con accezione negativa, il cambio di mentalità diventa fondamentale. Sbagliare è parte del percorso di crescita ed essere un “fallito” non è mai un insulto, al contrario, il fallimento è una realtà inevitabile della vita che può offrire grandi opportunità di apprendimento e di crescita. Sui social si sentono spesso frasi motivazionali come “chi non sbaglia mai non ha mai tentato”, ma la realtà è che se si sbaglia per aver provato, si rischia di essere etichettati come “falliti” con conseguenze negative sulla propria autostima e sulla propria reputazione. Il fallimento può essere una situazione difficile e devastante, tanto che alcuni imprenditori decidono di commettere il gesto estremo del suicidio. Cambiare la concezione negativa che la società ha di questa parola è fondamentale per poter affrontare il futuro con un atteggiamento positivo e costruttivo.

Secondo lei qual è il valore aggiunto di aver vissuto l’esperienza del fallimento?

La mia sensibilità su questo argomento è maggiore, in quanto ho vissuto queste situazioni attraverso persone a me care. Credo che chiunque, in ogni ambito della vita, diventi per forza di cose più sensibile quando vive un’esperienza sulla propria pelle. Sfortunatamente, l’insensibilità sta diventando una qualità troppo diffusa in questa società. Se sei un attore si dà per scontato che tu abbia una sensibilità spiccata altrimenti non potresti fare questo lavoro e quando si tratta di un tema a cui siamo personalmente legati, diventiamo ancor più coinvolti e la nostra resa è diversa rispetto a quando dobbiamo impersonare ruoli lontani dalla nostra vita reale.

Secondo lei, perché in Italia è così difficile vedere il fallimento come una possibilità di
riscatto?

L’Italia è un paese che scoraggia chi vuole intraprendere un’attività imprenditoriale. Non è facile aprire una qualsiasi attività qui a causa di una serie di paletti e tanta burocrazia che spesso ostacolano gli imprenditori. Per questo, se sei in grado di realizzare qualcosa in Italia, sei già un’eccellenza. Viviamo in una società in cui si giudica chi fallisce come imprenditore e si pensa, erroneamente, che chi fallisce non abbia avuto successo perché non ha lavorato abbastanza duramente, o peggio ancora, perché non aveva le capacità necessarie per gestire la propria azienda. Questa concezione porta molte persone a sentirsi una nullità, a rimettersi in gioco con difficoltà e a perdere quella spinta all’azione, occorre quindi cambiare l’idea alla base del fallimento.

A suo avviso il fallimento di una donna è visto diversamente da quello di un uomo? O crede che proprio questa triste circostanza riesca a mettere i due sessi sullo stesso piano?

A livello giuridico, uomini e donne sono formalmente equiparati, ma se approfondiamo la questione, emerge che le donne sono spesso soggette a maggiori ostacoli. In generale, quando una donna fallisce, si cerca di capire quanti anni ha, se ha figli, la sua situazione familiare e se è separata o divorziata: in altre parole, si tende a pesare le circostanze della sua vita privata rispetto al suo fallimento imprenditoriale. Tuttavia, è importante sottolineare che l’indebitamento e il fallimento non conoscono differenze di genere e possono colpire chiunque. Non mi va di dire che le donne sono più penalizzate, perché non è vero. Esistono, infatti, uomini che finiscono sovra indebitati a causa della separazione e dei contributi alimentari, non tanto per i figli, ma per l’ex moglie. Inoltre, anche se la casa era di proprietà di entrambi i partner, in molti casi i figli restano con la madre e l’uomo è costretto a cercare un’altra sistemazione. Secondo l’idea tradizionale, l’uomo che non si è separato e il cui stipendio è quello principale in famiglia, se fallisce fa fatica a reggere la situazione psicologicamente, sentendosi un fallito anche in ambito privato, ma lo stesso vale anche per le donne. Ogni persona ha la propria storia, il proprio percorso e le proprie difficoltà da affrontare. Nel 2023, parlare di famiglie tradizionali e di una disparità di genere nel campo lavorativo sarebbe anacronistico.

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