Gender Gap, verità e menzogne

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“Le donne in Italia sono sempre meno pagate dei maschi”, “Ecco quanto guadagnano meno degli uomini a parità di incarico”, “Ancora oggi le donne vengono pagate meno degli uomini”. Questi titoli di alcune autorevoli testate rispecchiano la realtà? Può davvero accadere in un paese dove la maggior parte delle professioni è regolata da contratti collettivi e la parità di trattamento è prevista dalla Costituzione e dalle leggi? Sì e no. A parità di ruolo, mansioni e ore lavorate, uomini e donne sono pagati in modo uguale. Poche volte, però, uomini e donne sul lavoro si equivalgono. Quindi il gap non è sul salario orario individuale, ma sul “reddito di genere”. Andiamo nel dettaglio.

Il Gender Pay Gap rappresenta la differenza tra lo stipendio medio degli uomini e delle donne che hanno un lavoro dipendente. Si misura attraverso la differenza tra le retribuzioni orarie medie di un sesso e dell’altro, espressa come percentuale della retribuzione media oraria lorda maschile. Alcune fonti mettono in un unico calderone cassieri esperti e alle prime armi; direttori, segretari, operai, manager di multinazionali; maestri e professori; chi fa straordinari e chi no; chirurghi e infermieri, ecc… Sommano gli stipendi per genere, individuano la linea mediana, la paragonano alla media degli stipendi maschili e il gioco è fatto: le donne prendono meno degli uomini.

Allora il GPG dà una visione veritiera della realtà per quanto riguarda il salario? Non può. Perché non tiene conto di variabili quali i diversi tassi di occupazione, i diversi settori di attività e le mansioni, i congedi, gli straordinari, il part-time (che da solo incide con un -21,3%). Ciò che il GPG ci dice è che il mondo femminile ha un reddito generale inferiore a quello maschile. Il motivo dipende da fattori come la scelta del tipo di attività, il tempo che vi si dedica, la continuità. Per l’Onu il GPG globale è del 23%. Eurostat lo indica per l’Europa nel 14,1%, per l’Italia nel 4,7%. Uno studio però ci aiuta a capire quello che succede davvero. La società di consulenza aziendale Korn Ferry, che ha uno dei più grandi database del mondo (12,3 milioni di dipendenti in 14.284 aziende di 53 paesi) ha valutato il GPG per ruolo. Risultato: nella retribuzione tra i sessi in generale, gli uomini sono pagati in media il 16,1% in più delle donne, ma valutando lo stesso livello di lavoro (niente calderone), il divario scende al 5,3%. C’è di più: con stesso livello e stessa azienda si riduce all’1,5%; con stesso livello, stessa azienda e stessa funzione, allo 0,5%. Il problema allora qual è? Che difficilmente donne e uomini arrivano a ricoprire gli stessi ruoli. Per esempio, tra le 500 aziende più grandi del mondo per Fortune, tra i consiglieri d’amministrazione solo il 16,9% sono donne. Perché succede? Per capirlo bisogna riconoscere la complessa interazione tra sesso e genere, perché uomini e donne non sono solo frutto di stereotipi. Sono anatomicamente diversi, anche a livello cerebrale. Lo dimostra uno studio del National Institute of Mental Health. Grazie a migliaia di risonanze magnetiche, studi di neuroimaging, analisi di tessuti cerebrali di donatori deceduti, lo studio rileva che la diversa anatomia cerebrale incide sui comportamenti e che è improbabile che i fattori ambientali siano primari nel modellare le differenze comportamentali. Se è così, una quota di Gender Gap è ineliminabile. Per esempio le donne (salvo eccezioni) nell’ambito professionale tendono a tenere un comportamento basato sulle relazioni, mentre gli uomini sono più propensi a puntare sull’individualismo e sull’affermazione di sé.

Elementi biologici immutabili e costruzioni sociali vanno a braccetto. Pertanto, se riteniamo che una donna sia più libera di fare le sue scelte se è indipendente economicamente, è giusto attuare politiche che la aiutino a raggiungere quell’indipendenza. Ma se una donna con un forte istinto materno decide di prendersi cura direttamente dei figli a tempo pieno o part-time, non diciamo che è dovuto alla cultura patriarcale. In occidente non ha più alcun fondamento legislativo e sociale. La sua è una scelta libera. Non lo è quando, volendo reinserirsi nel mondo del lavoro dopo il parto, mancano i servizi per l’infanzia o sono troppo costosi. Non è un caso se un balzo in avanti nell’occupazione femminile lo abbiamo fatto negli anni ‘70 quando sono nati gli asili nido; o se il tasso di disoccupazione più elevato delle madri lo abbiamo nel Mezzogiorno, dove i posti disponibili nei nidi pubblici e privati non raggiungono il 15% del bacino di utenza.

Il problema non è la discriminazione, che oggi è residuale – certo, da combattere ove si verifica, ma non si può ritenere sistemica senza mentire, altrimenti avremmo un mare di vertenze sindacali e di condanne, e non è così. Il problema è nell’insufficienza di chi, non riconoscendo quei fattori biologici che la cultura non può modellare, non mette in atto le politiche di sostegno adeguate. Se si rifiutano le ragioni biologiche e si ritiene che le donne non debbano stare a casa a prendersi cura dei figli perché ciò equivarrebbe a una “segregazione” forzata, o derivata esclusivamente da uno stereotipo antico, va da sé che non vengono messe in atto le politiche di sostegno necessarie per permettere una determinata scelta. Invece occorre riconoscere la vera essenza dell’umano, che è un misto di natura e cultura, di maschile e femminile, di differenze complementari.

Allora se da una parte per ridurre il GPG agiamo per far sì che le donne si innamorino delle più redditizie discipline STEM, attraverso un incentivo statale milionario alle Università per abbattere le tasse rosa, dobbiamo fare altrettanto per incentivare gli uomini a intraprendere percorsi che li portino verso la bellezza dell’istruzione primaria, dove il Gap azzurro è imbarazzante: secondo i dati del Miur 2017/18, nella scuola dell’infanzia i docenti maschi di ruolo e a tempo determinato sono l’1,7% e il 9,1% nella scuola primaria. E qui non è certo questione di soldi (i nostri insegnanti sono tra i meno pagati d’Europa) ma di capitale umano. E di un equilibrio di genere che non deve essere sbilanciato se l’obiettivo è il benessere collettivo. A un’azione per agevolare una parte dell’umanità né deve corrispondere una per agevolare l’altra. Se vogliamo ridurre il GPG delle madri che desiderano tornare al lavoro dopo la nascita di un figlio, oltre ai servizi per l’infanzia dobbiamo pensare ai padri. Finora i papà hanno appena dieci giorni di congedo retribuito. Con il Family Act sembra che il governo vada nella giusta di-
rezione: la ministra Bonetti ha annunciato l’estensione a tre mesi. Ma in che formula? In Spagna i genitori hanno eguale diritto a 16 settimane di congedo non trasferibile pagate al 100% di cui 6 obbligatorie, il resto le possono utilizzare a tempo pieno o parziale.

In Norvegia i papà hanno quasi un anno di congedo con 46 settimane pagate al 100% (vi accede il 90%). Si chiamano pari opportunità, dove tutti sono contenti: le mamme che lo vogliono possono dedicare serenamente più ore al lavoro, i papà possono condividere gioie e dolori del crescere i figli, questi ultimi possono beneficiare della fondamentale presenza di entrambi. Allora, forse, per avere una società più giusta e libera, è ora di parlare di “Human Gap”.

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