Gender gap

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America first! Lo slogan-ossessione di Trump può essere declinato in tanti modi, fino ad essere provocatoriamente rovesciato. Prima l’America e gli americani, con la conseguente fine di una politica estera ormai consolidata che ha portato al disastro di Kabul, ma anche, ancora una volta, l’America “per prima”. Soprattutto nelle tendenze sociali e culturali, oltre che in quelle economiche e di marketing. Dopo il rock, il cinema e il musical, noi europei siamo debitori di una nuova ondata di sensibilità che forse non cambia l’intera storia di potere nei rapporti fra uomo e donna, ma ne riscrive almeno le regole per un futuro ispirato a una reale idea di uguaglianza. Mi riferisco agli scandali che hanno recentemente travolto il jet-set a stelle e strisce, con una velocissima propagazione agli altri strati della società, grazie ancora una volta alla forza comunicativa globale. Il grande simbolo, negativo, rimane Weinstein, il potente produttore cinematografico accusato nel 2017 da almeno una dozzina di donne di molestie, aggressioni, violenze a sfondo sessuale. Come una noce di neve che rotola verso una valle di vittime tutte simili diventando una palla gigantesca e inarrestabile, le accuse contro di lui arrivavano da tutte le parti, soprattutto dalle stelle che avevano lavorato con lui, Asia Argento, ma anche Ashley Judd, Angelina Jolie, Gwineth Paltrow.

Il sistema, con la sua coltre di ricatti e di silenzi, era ormai crollato. Nessuna scusa, nessun risarcimento, potevano evitare non solo il processo e la condanna, ma anche la fine di un impero e forse di un’intera modalità antropologica e professionale del mondo del cinema. Soprattutto nasceva un movimento femminista globale e all’inizio non ideologico, il MeToo, (“è capitato anche a me”), che è arrivato velocemente anche in Europa, suscitando altri scandali clamorosi, nel mondo dello spettacolo, ma non solo. Su questo tema torneremo nella seconda parte del nostro ragionamento, ora il focus è sulla genesi del fenomeno.

A questo proposito, sempre negli Stati Uniti, l’anno prima, il 2016, c’era stato un altro caso clamoroso, che riguardava stavolta il mondo della tv, precisamente dell’informazione, e che in qualche maniera aveva preparato il terreno. Stesse le modalità strutturali della vicenda, un uomo potentissimo e non più giovane, una prima denuncia e poi a effetto domino tutte le altre, a scoperchiare un sistema pluridecennale di carriere femminili condizionate dal ricatto sessuale. Altra tipica modalità di queste narrazioni malate è il Capo che si fa difendere dalle sue dipendenti, in barba alla solidarietà femminile.

Stiamo parlando di Roger Ailes, Ceo e Presidente della Fox, la tv del magnate australiano Rupert Murdoch diventata riferimento della destra americana. Ailes era stato il creatore della Fox e l’uomo che determinava le linee editoriali, oltre ed essere stato un super consulente della comunicazione politica di gente come Nixon, Reagan, Bush e per ultimo Trump. Le prime accuse arrivano dall’anchorwoman Gretchen Carlson, licenziata per aver rifiutato le avances sessuali del suo superiore, e poi si aggiunge quella della star della tv di destra Megyn Kelly, all’apice della carriera e dunque non contro-accusabile di frustrazione professionale. E poi tutte le altre. Trump viene eletto e Ailes muore nel 2017, in tempo per non vedere lo scandalo parallelo e sicuramente più vasto e violento, quello di Weinstein.

Questa la storia, questo il beginning, per dirla all’anglosassone. Ora però sciocchiamo le leggi del racconto e facciamo un salto mentale e logico. Il cosiddetto Gender gap, il divario di genere, è un calvario che ancora accompagna la democrazia contemporanea occidentale. Il jet-set fa da detonatore apicale della comunicazione, il risvolto drammatico dell’industria del gossip, ma il problema c’è in tutti gli strati sociali della nostra convivenza e dei nostri rapporti di lavoro. Non ci sono solo le giornaliste e le attrici famose, il problema riguarda tutte le donne.

Secondo un report dell’Istat relativo al biennio 2015-2016 in Italia sono 1.173.000 , pari al 7,5% del totale campione fra i 15 e i 64 anni, le donne che sono state vittime di violenze in ufficio o in azienda, e l’80,9% di loro non ne ha mai parlato con un collega. I dati complessivi ci dicono che le vittime femminili di molestie sessuali nel corso della vita sono (sempre in riferimento all’Italia) 8.816.000, pari al 43,6% del totale, insomma una su due. Per onestà di cronaca ci sono anche 3.754.000 uomini, pari al 18,8%, fra le vittime. Sono numeri che non piacciono alle femministe idologiche, che si sono poi intestate il MeeToo, arenandolo nelle secche della discussione politica e togliendolo di fatto dalla dimensione culturale e formativa. Sempre per completezza, ricordo che sono numeri forniti dai principali istituti di statistica, le donne sul lavoro non trovano solo mostri maschili, ma anche quelli dello stesso sesso: il 70% delle vittime di mobbing è al femminile, ma il 40% dei carnefici appartiene al gentil sesso nella forma meno gentile soprattutto con le proprie colleghe. Un aspetto poco studiato ancora e che non piace molto ai mainstream, sempre più conformista. Oltre alle conseguenze fisiche, morali e psicologiche, rimane un divario salariale e di opportunità professionali che va colmato. In condizioni generali, anche senza gli estremi del sesso, è come se una donna cominciasse a guadagnare rispetto a un uomo dal mese di febbraio. Una differenza del 10% annuo, secondo il Gender Gap Report del 2019.

Il Covid non ha fatto che peggiorare queste disuguaglianze, con molte giovani precarie che sono finite a casa o licenziate perché incinte. Da noi maternità e diritto al lavoro non vanno ancora d’accordo, ma il problema culturale esiste ovunque. Nel Regno Unito, ad esempio, dove da poco le aziende con oltre 250 dipendenti hanno cominciato a fornire i dati (e questo la dice lunga) si è scoperto che in una delle banche d’affari più importanti del mondo, la Goldman Sachs, il gap arriva al 50%. Nella super citata Silicon Valley, simbolo del progresso tecnologico universale, è dell’11,86%. Eurostat ha cercato di mettere insieme tutti gli indicatori complessi di questa situazione, e ha partorito una sorta di nuova unità di misura internazionale, il Gender overall earning gap, il divario retributivo complessivo di genere, l’Italia era al 43,7% contro il 39,6% dell’Unione europea all’epoca senza Brexit. Paradossalmente i numeri sono più confortanti delle singole storie, ma ci dicono comunque che la strada è ancora lunga, una strada fatta di norme, di incentivi ma anche di nuovi modelli formativi.

Una donna sul lavoro, che sia astrofisica, attrice o commessa, deve essere giudicata dalle sue capacità e non dal suo essere donna in sé. Quando la meritocrazia diventerà l’unica bussola morale dei nostri rapporti, forse potremo dire di essere un po’ più uguali.

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