Valentina Falco • Mi chiamo Valentina. Sono una donna a caso

Alessandro Pozzi - 1

Il titolo è volutamente provocatorio. Perché Valentina Falco, milanese, 42 anni (di professione office manager), è l’autrice della pagina Instagram Una donna a caso, oltre 36 mila followers – nel momento in cui scrivo – tra cui troviamo Chiara Ferragni e la direttrice del settimanale femminile Donna Moderna, Annalisa Monfreda, e ancora, giornaliste, scrittrici, responsabili di case editrici. In questa pagina, che lei gestisce in forma anonima («credo che così funzioni meglio»), ripubblica i titoli dei giornali che parlando di donne operano una discriminazione di genere – spesso in un modo talmente sottile che quasi non ce ne accorgiamo. Quelli in cui le chiamano col solo nome di battesimo (trasformandole in “donne a caso”, per l’appunto) oppure le definiscono figlie, mogli, sorelle di un uomo, o sempre e soltanto “mamme”. Perfino se governano una nazione, o hanno vinto un Nobel. «Un caso simbolo? Quando Margaret Thatcher nel 1978 divenne la prima donna in Europa a capo di un governo, Il Corriere della sera titolava “La figlia del droghiere ha preso il posto di Churchill”. Oggi la situazione non è poi tanto diversa».

E dunque ha pensato di creare una pagina Instagram.

«Una donna a caso è nata nell’ottobre del 2020, dopo che avevo assistito a un panel tenuto da alcune donne che stimo, la scrittrice Michela Murgia, la sociolinguista Vera Gheno, la giornalista Giulia Blasi, la filosofa Maura Gancitano, in cui si affrontavano tematiche legate alla discriminazione sessista. Così ho cominciato a prestare attenzione al linguaggio che viene usato quando si parla o si scrive di donne, e ho sviluppato una certa sensibilità. Nella pagina ho deciso di creare un archivio degli articoli di giornale che reputo sessisti, ma senza fare accuse alle testate o ai giornalisti che li firmano, che infatti non sono citati. Non mi interessa prendermela con le persone, ma rendere evidente un fenomeno che persino noi donne fatichiamo a identificare».

L’ultimo articolo che in questo momento vedo pubblicato, ha come argomento il fine mandato della cancelliera tedesca Angela Merkel. Titolo: “L’addio di Angela, la ragazza venuta dal freddo”. Che cos’ha che non va?

Trovo che chiamare la cancelliera semplicemente “Angela” sia svilente e non rispettoso del suo ruolo istituzionale. Privarla del cognome è come spogliarla della sua competenza e soprattutto del suo potere: è forse mai uscito un articolo in cui il premier Draghi viene chiamato soltanto “Mario”? Quando invece si parla di donne c’è sempre una tendenza “patriarcale” interiorizzata a sottolineare quanto siano carine, accoglienti, “mamme”, però mai potenti o decisive. E il risultato è che di queste donne si perde la memoria. Le faccio un esempio.

Prego.

L’economista Ngozi Okonjo-Iweala di recente è diventata la prima donna e la prima africana a ricoprire la carica di direttore generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Mica male. Eppure nei titoli dei giornali è stata ribattezzata “la nigeriana”. Il suo è un nome difficile, e se non lo troviamo scritto non lo impareremo mai, cosa che ci potrebbe aiutare a conoscerla e a ricordare chi è. Tant’è che i nomi dei calciatori di cui leggiamo continuamente, perfino i più strani, li abbiamo imparati tutti benissimo. Voglio dire: come possiamo sperare in un mondo non sessista se non riusciamo a conservare memoria delle donne che hanno conquistato una posizione di prestigio? Partiamo almeno dai loro nomi, perché quella del linguaggio è la rivoluzione più accessibile.

La sua pagina è parecchio seguita, qualche testata giornalistica che ci ha ritrovato un suo pezzo l’ha mai contattata?

Nessuno mai direttamente, ma è capitato diverse volte che alcune testate abbiano modificato i loro titoli dopo che sulla pagina si era aperta una discussione. Qualcosa sta cambiando.

E quindi come sta messa in Italia la reputazione delle donne che si distinguono per eccellenza e finiscono sui giornali?

Non tanto bene, c’è ancora un bel po’ di lavoro da fare. Perché quando queste donne riescono finalmente a entrare negli uffici da amministratrici delegate o da presidentesse, o comunque raggiungono grandi risultati nel proprio campo, finiscono lo stesso descritte dai media come madri o mogli o figlie di qualcuno. Non importa chi sono, ma a quale uomo appartengono. Jessica Springsteen ha vinto l’argento per l’equitazione alle Olimpiadi di Tokyo, ma nei titoli era per prima cosa “la figlia del rocker Bruce”. Le scienziate che si sono occupate della pandemia sono tutte “Lady BioNTech” o “madri dei vaccini”, mai che vengano citati i loro nomi. Ricordo in particolare un titolo dello scorso anno che raccontava come lo scienziato turco-tedesco Ugur Sahin avesse scoperto il vaccino contro il Covid “insieme alla moglie”. Lei, Özlem Türeci, è immunologa, cofondatrice di BioNTech e presidentessa della società. Ma evidentemente, proprio quel giorno era a casa a stirare.

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