I limiti del capitale umano

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Il termine “capitale umano” è diventato di uso comune a partire dagli anni Sessanta, quando diversi studi (in particolare i lavori di Schultz) hanno cominciato a identificarlo come uno dei fattori più importanti nella crescita endogena della produttività aziendale. Come tutti i “meme”, deve la sua fortuna alla familiarità che ognuno di noi ha con il concetto anche se lo incontra per la prima volta, il che ha fatto sì che il termine diventasse un vero e proprio mantra quando le nostre economie sono entrate nell’epoca della conoscenza.

L’idea di capitale umano richiama infatti il più ampio concetto di “capitale”, ovvero qualsiasi cosa possa essere accumulata e dare un ritorno economico positivo nel lungo periodo: si parla in questo senso di capitale finanziario, capitale tecnologico e capitale reputazionale. Il termine capitale umano è diventato così ampiamente di uso comune, spesso utilizzato semplicemente come variante “politicamente corretta” di termini quali “forza lavoro” e “dipendenti”, anche se la presenza dell’aggettivo “umano” lo rende un concetto estremamente complesso. Generalmente il capitale umano racchiude al suo interno un mix di doti innate, competenze e conoscenze che vengono acquisite durante la propria vita. Se poi lo estendiamo a una dimensione di gruppo, include di solito anche le dinamiche relazionali particolari che in quello specifico gruppo vengono a determinarsi. Già in questa prima (ed elementare) definizione mi sembra quindi che qualcosa non torni con il concetto di “stock”, implicito in quello di capitale, poiché nulla di tutto ciò può essere “accumulato”. Non possono essere accumulate le nostre capacità innate, per quanto possa sembrare controintuitivo. Il nostro patrimonio genetico infatti ci offre solo alcune predisposizioni che sta a noi (eventualmente) coltivare e che non è detto restino stabili nel corso della nostra vita (ad esempio una persona tendenzialmente estroversa non è detto lo sia per sempre). Allo stesso modo, non possono essere “accumulate” conoscenze (che possono essere dimenticate) e competenze (che possono essere perse).

Ma soprattutto non si tratta semplicemente di “aggiungere” o “togliere” qualcosa: se ragioniamo in termini complessi (e non possiamo esimerci dal farlo a maggior ragione quando parliamo di umanità) ogni cosa è in perenne trasformazione e viene definita non da delle caratteristiche intrinseche, ma dalle sue relazioni. Come persona posso essere “simpatica” per qualcuno e non per altri, “intelligente” per alcune cose e non per altre, “estroverso” su alcuni argomenti e non su altri. Allo stesso modo un gruppo può essere affiatato in un preciso contesto e non in un altro, magari anche molto simile ma comunque diverso.

In questo senso, parlando di “capitale umano” corriamo un rischio enorme: quello di oggettivizzare le persone mettendole alla stregua di un qualunque altro asset di un patrimonio. Se osserviamo le nostre organizzazioni, governate da numeri e KPI, non credo sia un rischio ipotetico. In tal senso sono celebri le parole di Jim Hagemann Snabe di SAP, quando verso la fine del suo mandato come CEO confessò che l’errore più grande che aveva fatto era stato quello di oggettivizzare (o usando le sue parole “congelare i cervelli”) i propri talenti per farli rientrare negli oltre 50.000 KPI che governavano l’azienda. Non fraintendetemi, la standardizzazione dei compiti e l’utilizzo di indicatori di performance sono strumenti necessari per governare la complessità, ma proprio perché viviamo in un mondo complesso le nostre organizzazioni hanno bisogno di creatività ed entusiasmo per adattarsi ed evolversi – due parole che possono essere “promosse”, “coltivate” ma non possono essere “accumulate”. Riprendendo il discorso fatto da Friedrich Hayek quando ha ricevuto il premio Nobel, i manager devono imparare che in un ambiente complesso non è possibile raggiungere i risultati desiderati semplicemente accumulando conoscenze, ma devono piuttosto preoccuparsi di offrire un ambiente appropriato che metta le persone in condizione di crescere e reagire al meglio alle sfide.

Ogni volta che riferendoci a una persona utilizziamo il termine “risorsa” o “capitale” stiamo quindi perpetrando un paradigma organizzativo che forse andava bene sessant’anni fa, ma che oggi non ci aiuta a massimizzare il contributo umano che ciascuno di noi può dare ai gruppi di cui fa parte. Se vogliamo costruire organizzazioni a misura d’uomo e che guardano al futuro, è da qui che dovremmo partire.

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