Paolo Crepet • Il capitale umano è il vero capitale

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Non le manda a dire, non ama seguire l’onda, non propone soluzioni consolatorie assecondando “la pancia degli italiani”, anzi. Paolo Crepet deve il suo successo alla capacità di analizzare attingendo alla sua lunga esperienza di psichiatra, educatore e saggista. Gira instancabile l’Italia (festival, ospitate varie, consulenze aziendali) preoccupato del futuro che ci siamo costruiti, nel tentativo di contagiare con la forza del ragionamento e la ruvidezza delle sue tesi, facendo piazza pulita di ipocrisie e autoassoluzioni: “Lo smart working smetterà di esistere, abbiamo bisogno di contatto, di vita vera. Il lavoro da remoto allunga i processi di decisione e se quest’ultima deve passare attraverso più persone che non sono in presenza, ci mette moltissimo per arrivare a tutti. Se un’azienda vuole investire sul futuro deve avere il coraggio di investire in intelligenza, creatività, innovazione, quindi in persone. Nessuno da solo può essere creativo. È da sempre un punto di riferimento quando si parla di educazione, istruzione, formazione (“La Dad è stata un fallimento totale”), è un osservatore disincantato delle giovani generazioni di cui si occupa anche nel suo ultimo libro, «Lezioni di sogni», dove ha condensato oltre trent’anni di riflessioni e articoli che scandagliano il tema da diverse prospettive, mescolando ricordi personali e interventi pubblici. Non risparmiando critiche acuminate agli adulti, che da tempo hanno rinunciato ad assumersi le loro responsabilità.

Professor Crepet, che cos’è il capitale umano?

Il capitale umano è il vero capitale. Nel senso che il capitale delle macchine, della tecnologia, degli immobili dipende interamente da chi c’è dentro quell’azienda, dalla qualità delle persone che ci lavorano. Oggi c’è una grande confusione perché è venuto a galla un modello, quello dello smart working, che c’è e non c’è, che ha messo alcune aziende, soprattutto quelle con un alto tasso di creatività, in una sorta di “stand by”, perché è ovvio che la creatività si innesca dalle relazioni e questo credo che l’abbiano capito bene anche le grandi aziende tecnologiche americane.

E per chi non fa prodotti creativi cosa conta maggiormente, le competenze?

Le competenze valgono sempre. Quando andiamo da un dentista speriamo che sia bravo, così se decidiamo di seguire una lezione universitaria è perché siamo convinti che quel professore ci possa dire qualcosa. È tutta competenza, anzi le competenze devono essere implementate per capire quali serviranno per il futuro.

Quali qualità deve possedere un imprenditore o un manager per individuare le migliori risorse umane?

Il manager è un intraprenditore, non gestisce solo ciò che c’è, è uno che prevede ciò che ancora non si vede. E in questo c’è il valore di un’azienda: non solo mantenere il know-how, i brevetti, le relazioni interne ma la capacità di prevedere. Oggi tutto questo è strategico perché ci sono delle situazioni generalizzabili tipo la crisi energetica, la guerra, il sobbalzo che ha avuto tutto il mercato internazionale, ed è chiaro che bisogna avere la capacità di previsione, di una visione delle cose che sia a medio termine e non a breve, capire quello che farà il mercato da qui ai prossimi 10 anni.

Cosa bisogna valutare nella scelta di una persona oltre alla sua competenza?

L’intelligenza emotiva, cioè la capacità di resistere in un momento difficile, di sapere che siamo tutti in parte vulnerabili e quindi di non demonizzare qualche nostro momento di difficoltà. Oggi il coraggio è ammettere anche la paura, solo uno stolto può non avere paura di questi tempi. Anche un’azienda deve fare i conti con la paura: quella dei propri clienti, quella di non avere così tanta voglia di investire, ma questo è il rendiconto di qualsiasi crisi economica. Nel 2008 fu così, oggi è così, dobbiamo riuscire ad andare oltre questa grande onda che sta per infrangersi. Va inventato qualcosa che adesso non c’è, tenendo presente l’evoluzione della società, magari chi fa pantofole ha una marcia in più perché le useremo di più, per ogni mercato che si chiude ce n’è un altro che si apre.

Qual è il valore del lavoro in team, il lavoro di squadra, spesso mitizzato ma ben poco praticato…

Il team conta se c’è un tasso bassissimo di invidia. Se si riesce a tenerlo sotto controllo e far sì che non diventi prevaricazione, gelosia, paranoia, allora ha senso lavorare in gruppo. Un grande manager è uno psicologo che conosce le persone. Penso alla difficoltà che c’è nell’aumento, sacrosanto, della quota femminile dentro un’azienda: non è solo un valore aggiunto ma un problema che va affrontato, perché possono nascere relazioni difficili. Quando si cambia, e stiamo per fortuna cambiando, siamo tutti contenti che ci sia il 50% di dipendenti donne, anche in posizione di vertice, però questo crea potenzialmente problematiche che non sono squilibri ma che vanno gestite.

Ci sono manager che non amano lavorare in team ma ottengono comunque brillanti risultati per la propria azienda…

Le aziende sono valutabili sempre nel medio periodo, come i titoli in Borsa, vanno giudicate nel tempo. Dietro un modello di azienda che va bene ce ne devono essere altri dieci che andranno bene, nel momento in cui concepisci qualche cosa che funziona è il momento per capire che cosa potrebbe non funzionare nel futuro.

La competenza è fatta di tante cose: istruzione, formazione, risoluzione dei problemi, empatia ma spesso queste caratteristiche non sono percepite come valore aggiunto.

Questo è un errore che stiamo compiendo in troppi. Le competenze devono avere un valore, non possono essere sostituite da soluzioni pret-à-porter. Il futuro è qualcosa che si crea attraverso le migliori università, i migliori licei, i migliori istituti tecnici, le migliori scuole elementari. In Italia sappiamo bene che non è così ma dobbiamo guardare ad altre realtà, dove ci sono modelli più strategici. Credo che investire nell’istruzione – che non vuol dire solo nelle materie ma anche nei luoghi, avere cioè delle belle scuole dove i ragazzi e le ragazze possono stare insieme per diverse ore al giorno – è il minimo che possiamo fare per far invecchiare serenamente la nostra generazione pensando che quella che verrà dopo avrà le possibilità di non essere ricattabile: meno istruzione c’è e più c’è timore per sé stessi e quindi si dipende dagli altri. Se siamo in questa situazione è proprio perché abbiamo pensato poco alla nostra autonomia. Basta pensare al genio di Enrico Mattei e a quello che aveva previsto in quegli anni, che l’Italia fosse il più possibile autonoma
dal punto di vista energetico.

Un altro grande italiano, Adriano Olivetti, aveva capito che non era possibile un divario troppo grande tra gli stipendi dei manager e quelli dei dipendenti. Oggi la sproporzione è abissale: quanto incide sul capitale umano?

Adriano Olivetti non si è tenuto tutto per sé, ha cercato altre persone al suo pari, è uno degli esempi più straordinari. Per fare delle macchine da scrivere ha chiamato dei designer milanesi ad Ivrea e ha detto: Fatemi una macchina da scrivere bella e ne ha fatta una rossa che sembrava quasi una borsa da signora, questo è genio. Tanto che siamo stati riconosciuti come industria, produzione da una parte e bellezza dall’altra. e siamo diventati fortissimi, siamo arrivati al Moma di New York, siamo stati i protagonisti della produzione non solo funzionale ma di vera e propria estetica. E se non lo siamo più chiediamoci il perché.

Sul suo lettino i manager cosa le dicono?

I manager difficilmente vanno nello studio di uno psicanalista perché pensano che sia una diminutio, in questo le donne sono molto più brave perché capiscono che la loro fragilità è la loro forza. Certo, le cose stanno cambiando, c’è anche il manager – psicologo che capisce i momenti in cui gli altri sono una risorsa e non deve pensare che lo siano solo quando sono perfetti, la perfezione è un grande difetto.

In ambito sanitario si dice “mettere al centro il paziente”, oggi la parola d’ordine, in tutti i settori produttivi, è mettere al centro l’essere umano”: che effetto le fa?

Penso ad alcune pubblicità dove si dice che adesso si fa tutto on line. La sanità? La sanità è relazione, non è ciò che il medico ti prescrive ma è anche il suo sguardo, la sua pacca sulla spalla e sei contento se si ricorda che hai un figlio e ti chiede come sta, ecco, questo fa parte della cura che non è solo misurare la febbre o prescriverti un antibiotico, la cura è anche accorgersi che ci sono delle vite. Una volta feci dei seminari di formazione per alcuni primari, il titolo era come dare brutte notizie”, magari qualcuno fa gli scongiuri ma purtroppo esistono anche questi aspetti quando la diagnosi è infausta. Si può scappar via, si possono comunicare le conclusioni per iscritto oppure accogliendo il dolore che noi medici possiamo procurare.

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