Una guerra è prima di tutto e sopra ogni altra cosa un’esperienza umana drammatica, forse la più devastante di tutte. Qualsiasi altra riflessione si possa fare in aggiunta a questa, anche la più lucida e illuminante, sarà sempre poco più di un chiacchiericcio in sottofondo alle immagini che vediamo una volta dalla Libia, una dalla Siria, l’altra dall’Ucraina.
Parlando io spesso di complessità, una delle domande che più frequentemente mi viene fatta è: come si traduce “in concreto”? Quali sono i benefici che traiamo abbracciando una visione complessa del mondo? Non vi nascondo che rispondere a questa domanda prima mi metteva sempre un po’ in difficoltà.
Oggi la risposta è semplice: abbracciare la complessità vuol dire allontanare la guerra.
Pensiamo a come la guerra trasforma le nostre società. Improvvisamente ci dividiamo in due gruppi, “noi” e “loro”. Quasi tutte le interconnessioni nel mondo si interrompono: culturali, diplomatiche, economiche. Ciò che prima era un groviglio di scambi, ora diventa una coppia di monoliti in contrapposizione simmetrica. La verità perde le sue sfumature, spaccandosi in due, e ciascuna delle parti costruisce in una bolla, la propria.
Tutto diventa più semplice. Le colpe dell’altra parte possono essere riassunte di solito in non più di un paio di frasi. Tutta l’informazione, 24 ore al giorno, parla di una sola notizia. Nella peggiore delle ipotesi poi non si producono più giocattoli, non si stampano più libri. L’economia di guerra ha meno ingredienti di una lista della spesa.
Per contro, pensare in termini complessi vuol dire promuovere curiosità, integrazione, ascolto. Non vuol dire semplicemente riconoscere a ciascuno il diritto ad avere la propria opinione, vuol dire impegnarsi per accoglierla. E certamente, ricorrere alla violenza per risolvere le divergenze è senz’altro più semplice che cercare una sintesi. Combattere la semplicità con la semplicità è facile: tutto si risolve a chi “ha di più”.
Più tempo, più energia, più soldi, più forza. Il problema è che in questa escalation nessuna delle due parti può dirsi migliore dell’altra, e alla fine tutti perdono qualcosa. Ma un altro modo c’è, ed è quello di scommettere su ciò che ci unisce, prima ancora che su ciò che ci divide.
Credo che il tipo di risposta che stiamo provando a dare nel conflitto in Ucraina vada in questa direzione. Sanzionare un paese vuol dire evitare di rispondere in maniera simmetrica, provando a far leva sulla forza delle interconnessioni del nostro “sistema mondo”. Quanto più le economie si sviluppano e si interconnettono tra di loro, tanto più il nostro sistema mondo è integrato. Tanto più è integrato, tanto più è inevitabile che conflitti locali divampino rapidamente a livello globale. Se da una parte questo deve spaventarci, dall’altro può essere un buon deterrente affinché tutti possano impegnarsi nel perseguire la stabilità, ovvero la pace.
Come dicevo, questo genere di discorsi va bene in tempi di pace, mentre diventa poco più che rumore di fondo in tempi di guerra. Tuttavia, è proprio in questi momenti incerti che dovremmo impegnarci ancora di più per mantenere viva la cultura della complessità. Ogni volta che semplifichiamo qualsiasi discorso, ogni volta che gli altri hanno torto e noi ragione, ci stiamo muovendo nella stessa direzione che porta uno stato a invaderne un altro. Una direzione a senso unico.