Monica Marangoni • Parlare agli italiani degli italiani per capirli al meglio

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Foto: Ufficio Stampa Rai

Il Novecento ha lasciato in eredità agli italiani un nuovo senso di appartenenza alla propria comunità d’origine. È successo così ai tanti italoamericani di prima generazione che, spostandosi Oltreoceano, non hanno mai smesso di ricercare il calore tipico della Penisola, con tutte le sue contraddizioni ed eccellenze che fanno dell’Italia un brand unico nel mondo. La ricerca di sé stessi, però, ha bisogno di punti di riferimento nelle varie sfere d’influenza pubbliche e private, ed è fondamentale avere la possibilità di confrontarsi ogni giorno con un volto amico come quello di Monica Marangoni, giornalista Rai impegnata dal 2018 al 2021 nella conduzione de L’Italia con voi; la trasmissione dedicata agli italiani nel mondo. Abbiamo scelto di raccogliere la sua testimonianza sul rapporto che le comunità di italiani all’estero hanno costruito con le altre popolazioni in questi secoli di grandi migrazioni, con particolare attenzione alla comunità italoamericana.

Gli italiani all’estero ti vedono sempre più come un volto in grado di rappresentarli, ma come definisci il tuo rapporto con questa comunità?

Lavorando a Rai Italia ho avuto la grandissima fortuna di condurre il daily time per gli italiani all’estero, e ciò ha portato a un rapporto intimo con tutti i telespettatori, che sono in oltre 20 milioni di case e che hanno seguito il mio programma perché avevano bisogno di mantenere un contatto con il loro Paese, con la loro cultura e con quello che succedeva in Italia. Il legame si è consolidato e il pubblico degli italiani all’estero è molto affettuoso e si fidelizza: mi hanno scritto tantissime persone per chiedermi dei consigli o se potessi promuovere qualche iniziativa. Insomma, ho avuto una fortuna immensa a raccogliere questo tipo di pubblico che adesso è diventato una grande famiglia di cui mi sento parte.

La comunità italoamericana è da sempre bersaglio di stereotipi tendenzialmente negativi, eppure il rapporto di Iarl realizzato insieme a Zwan vede un aumento del capitale reputazionale degli italoamericani. Che ne pensi?

È vero, e purtroppo alcuni di questi stereotipi si riflettono anche sulla reputazione degli italiani che vivono in Italia. Fino a qualche tempo fa i nostri connazionali che vivono fuori dai confini si sentivano di serie B, venivano poco inseriti e considerati anche da noi italiani. Oggi, per fortuna, non è più così. Sicuramente, si segue ancora l’idea di trovare una terra promessa, delle opportunità che soprattutto per i giovani in Italia sono poche e poco soddisfacenti per il percorso professionale, di studio e formazione che hanno intrapreso. Sempre di più i ragazzi cercano almeno un’esperienza fuori, anche perché rimanere all’interno dei confini nazionali li rende meno competitivi. Magari, perché no, per poi tornare a casa e riportare quell’esperienza da noi in Italia e far sì che il nostro Paese ritorni a rappresentare la terra promessa di altri.

Quindi riconosci una crescita reputazionale non solamente della comunità italoamericana, ma della comunità italiana nel mondo. 

È soprattutto questo il punto. Il flusso oggi non deve essere unilaterale ma bilaterale: un vero e proprio scambio possibile anche grazie alle nuove tecnologie. In un mondo globalizzato dove ormai siamo tutti interconnessi, possiamo avere l’opportunità di scambiarci informazioni ed esperienze per migliorarci. Non deve esserci competizione “fuori e dentro” e mi auguro che questa comunità di italiani che vuole cercare nuove opportunità all’estero, possa comunque mantenere non solo un legame con l’Italia, ma rinforzare la nostra reputazione altrove.

Prima che si realizzi questa sorta di “Italian dream”, però, bisogna vedere se esiste ancora un “American dream”. Che aria tira adesso a proposito di “sogni”?

Io ho potuto toccare con mano anche personalmente con grande gioia il sogno, perché l’America effettivamente è un Paese in cui se vali vai avanti; c’è meritocrazia. Esiste un merito, mentre in Italia si fa molta fatica. Purtroppo lo sappiamo, soprattutto in certi ambienti: non sempre la bravura basta, anzi, a volte la bravura “fa paura”. Tendono non tanto a scartarti quanto a insabbiarti. Negli Usa si possono cogliere delle opportunità che in Italia è difficile trovare. Capisco che esista ancora questa voglia di ricercare il sogno negli States, perché lì è più semplice: si può.

In USA la reputazione ha lo stesso peso che ha da noi? 

L’America pone al centro il capitale umano e al centro del capitale umano c’è il capitale reputazionale. In un mondo assuefatto ai social e al culto dell’immagine la reputazione è tutto. È un bene immateriale, difficile da costruire ma facilissimo da distruggere soprattutto quando i media veicolano notizie in modo fuorviante e capzioso.

E cos’è per te la reputazione?

Se per reputazione si intende la verità di una persona, trovo che sia fondamentale nel lavoro come nella vita privata. Purtroppo, spesso non è così perché la reputazione viene rovinata anche da fake news ed episodi che dovrebbero rimanere privati e che, invece, poi vengono dati alla mercé di tutti con gravissime conseguenze. Solo noi possiamo sapere ciò che siamo e quanto valiamo, quindi mai lasciarsi definire dal giudizio altrui se questo è “la reputazione”. Se la reputazione effettivamente vuole definire l’essenza, l’anima di una persona, allora ritengo sia fondamentale. 

Cosa consiglieresti a chi volesse intraprendere una carriera in USA?

Secondo me basta tanta voglia di farcela, determinazione e spirito di sacrificio. Se hai queste tre caratteristiche, in America ce la puoi fare.

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