Donata Guerrini • Peso ai risultati: un viaggio da New York all’Italia solo andata

Guerrini

Per questo numero di Reputation Review, abbiamo avuto il piacere di ascoltare la voce della dott.ssa Donata Guerrini, Lead Strategic NegotiatorGlobal Infrastructure di Google, ma con un passato newyorkese, dapprima conseguendo un duplice Master of Science alla Columbia University dopo aver conseguito una Laurea in Ingegneria alla Sapienza di Roma e successivamente affinando il suo profilo professionale in diverse realtà imprenditoriali internazionali.

Recentemente, è stata premiata come Platinum Manager nella quarta edizione del Premio Giovane Manager, il prestigioso riconoscimento istituito da Federmanager – e organizzato in collaborazione con Hays Italia – pensato per premiare il ruolo e il valore delle competenze manageriali per i suoi iscritti.

Oggi, in Google, si occupa delle negoziazioni internazionali per favorire l’entrata dell’infrastruttura tecnologica Google in nuovi Paesi.

Un profilo internazionale a tutto tondo che ha scelto di tornare e mettersi in gioco nel nostro Paese. Una storia che abbiamo il piacere e l’onore di raccontare.

Eravamo presenti alla premiazione. Che effetto le fa, più a freddo, ricevere questo riconoscimento? Cosa rappresenta per lei?

Ero estremamente emozionata e sorpresa. Nella mia vita mi sono formata e ho lavorato molto oltreoceano; dunque, non pensavo neanche di poter essere considerata da una premiazione tutta italiana. I profili dei selezionati erano incredibili, molti di loro con esperienze internazionali e successi professionali di rilievo. Mi riempie di gioia solo l’essere annoverata tra questi manager.

Chi come me ha compiuto un percorso professionale simile, conosce tutti i sacrifici personali che vi sono dietro i traguardi che si raggiungono. La pressione, nei contesti americani che ho vissuto, è estrema: o sei il massimo o sei fuori.

È fantastico che Federmanager abbia riconosciuto e premiato il merito, in tal senso. Ma – a giudicare da tutti i premiati della giornata – mi piace pensare che sia anche stato premiato il coraggio di chi poi è tornato a casa, come me. Può sembrare un passo indietro, ma per me è l’opposto: è un vero e proprio orgoglio riportare la mia esperienza al servizio dell’Italia. Questo premio è il più speciale per me, perché mi fa capire che il nostro Paese riconosce e premia il
sacrificio; che il curriculum conta davvero qualcosa; che i fatti hanno un peso, più dell’età, del genere, o delle conoscenze. Un grande segnale positivo.

La sua, è senz’altro una storia professionale di successo. Quali sono state le principali difficoltà che ha incontrato nel suo ritorno in Italia, dopo l’esperienza americana?

Quello che ho percepito fin da subito nei contesti lavorativi italiani è un profondo problema di ageismo: forse una discriminazione ancor più marcata di quella legata al genere, ma della quale si parla troppo poco. Da quel che ho potuto percepire, è una realtà che purtroppo abbraccia tutta l’Europa del Sud, e in maniera ancor più marcata nei contesti pubblici. Sembra che si debba raggiungere necessariamente una soglia d’età per avere delle specifiche competenze.

Non possiamo far finta che queste dinamiche facciano parte del passato, perché sono ancora forti e vive nel presente. In America o in Nord Europa – e naturalmente parlo solo per ciò che ho vissuto sulla mia pelle – entrando in una sala riunioni con un determinato ruolo, qualsiasi esso sia, nessuno batte ciglio su età, colore della pelle, orientamento sessuale o genere. C’è una forte fiducia negli step che hai compiuto prima di sederti in quella meeting room. In altre parole, se vieni da un’università prestigiosa e sei stata assunta da una determinata azienda, c’è una fiducia spontanea e totale nel percorso di selezione e controllo antecedente.

Tornando sul focus della disuguaglianza di genere, noto che le donne in generale hanno meno libertà di espressione e indipendenza nello svolgere il loro lavoro. La questione dell’indipendenza è un qualcosa che tocca tutti i dipendenti, a dirla tutta, ma le donne sembrano maggiormente “censurate”, in particolare in un lavoro delicato come il mio. Difatti, in alcune fasi di una negoziazione occorre farsi sentire ed esprimersi liberamente e serenamente senza che le parole vengano pesate in maniera differente. In Google siamo tutti diversi, in ogni ambito, ed è ovvio che se consideriamo una stessa negoziazione, questa potrà essere gestita in 100 maniere da 100 persone diverse, ma il risultato finale non cambierà mai. A mio avviso, deve importare sempre meno il “come”, e ci si deve focalizzare sempre più sui risultati raggiunti.

Mi aggancio proprio a queste, ahinoi, ancora marcate disuguaglianze di genere: il sistema Italia ha le capacità di superare questo gap?

Penso che, differentemente da quanto si pensi, l’Italia abbia già tutte le carte in regola per superare questo gap, fin da subito. Basta avere il coraggio di guardare nella direzione giusta e implementare le giuste regole che servano a costruire degli ambienti di lavoro più sani. Non si deve far finta di aver già superato le disuguaglianze. Invece di demonizzare le grandi compagnie come quella in cui lavoro, dobbiamo sfruttare in positivo le loro esperienze: vedere come si può lavorare in modo più organizzato ed efficiente e quali sono le policy che migliorano di più la vita dei dipendenti. Tra queste policy, hanno maggior rilievo a mio avviso quelle che facilitano la diversità della compagine aziendale. La diversity fornisce chiavi di lettura alternative, e quindi soluzioni più efficaci.

Nella sua esperienza, quali sono le “buone pratiche” che aiuterebbero fin da subito a creare uno standard per tutte le organizzazioni?

Prima di parlare di policy, farei un passo indietro su un più generale approccio al lavoro e sugli obiettivi aziendali che si pongono. Ad esempio, alla fine della mia giornata lavorativa, io riesco a vedere l’impatto concreto di ciò che ho fatto. Penso che questo possa essere applicato in ogni organizzazione, piccola o grande che sia: è importante che ogni lavoratore comprenda perché si sta facendo un determinato lavoro, e contestualizzarlo in un risultato che abbia dei benefici non solo personali o aziendali, ma per l’intera collettività.

Parlando poi di policy, per me sono come il casco obbligatorio: se ci sono delle regole, e soprattutto se i capi le applicano per primi, dando il buon esempio al resto dei dipendenti, queste sono davvero efficaci. Nella mia esperienza, il paternity leave è senz’altro un qualcosa che applicherei da subito in tutte le organizzazioni. Ma come tutti i cambiamenti, questi devono avvenire dall’alto.

Per concludere la nostra intervista, mi piacerebbe compiere un passaggio più personale. Cosa la appassiona di più del suo lavoro in Google? Dove pensa di poter fare la differenza, in futuro, e dove l’ha già fatta in passato?

Fare la differenza, nel mio grande o piccolo che sia, è stato sempre il mio obiettivo, fin da piccola. Quando mi confidavo con alcune delle mie amiche, da bambina, e molte di loro avevano il sogno di diventare ballerine, io avevo un altro sogno, un po’ unconventional: costruire un grattacielo a New York.

E grazie al mio team, ce l’ho fatta! In una realtà come quella di Google, non lavoro solo per un mondo più tecnologico in senso stretto, ma mi impegno molto per la sostenibilità ambientale. Nelle mie negoziazioni, stringo accordi per fare uso di energie rinnovabili e far sì che il progresso abbia un impatto zero sulla terra. In questo senso, aiuto i Governi e i Paesi ad essere più Green ed ecosostenibili possibili. Per me non è una scelta, ma è un qualcosa di imprescindibile per il nostro futuro. Avere la possibilità di dare ogni giorno il mio contributo a questa causa, è ciò che mi riempie più d’orgoglio.

Guardando al passato, dopo tanti anni in America, con la mia squadra sono riuscita a sviluppare e a portare anche nel nostro continente l’infrastruttura dei dati e del Cloud. Un passo fondamentale per non “dipendere” dagli impianti oltreoceano e continuare ad essere davvero al passo con i tempi e tecnologicamente avanzati.

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