Quando il cigno non è nero

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In queste settimane si è fatto spesso riferimento al fenomeno del Covid-19 definendolo un “cigno nero”, ovvero un fenomeno imprevedibile in grado di stravolgere la cultura dominante con tutti i suoi paradigmi (il quale è, per inciso, anche all’origine del nome Zwan). Dei tanti errori che abbiamo commesso in queste settimane forse questo è stato il peggiore, perché nulla è più rischioso del pensare che un problema sia irripetibile. Nella non troppo ampia letteratura sulla dinamica dei sistemi complessi in realtà fenomeni di questo genere sono non soltanto ipotizzati, ma anche raccontati attraverso un’infinità di esempi: dalle epidemie in Africa e Asia, all’esplosione dell’HIV fino al boom delle mode o dei tassi di criminalità, i fenomeni epidemiologici esistono da sempre e sono semplicemente diventati più pervasivi e frequenti in questi duecento anni di globalizzazione. Possiamo anche stupirci andando a ripescare uno dei tanti video nei quali non solo veniva ipotizzato, ma addirittura dato per scontato che prima o poi la situazione attuale si sarebbe verificata, ma la cosa peggiore che possiamo fare è liquidare tutto sulle bacheche dei nostri social network come semplici episodi folkloristici. Forse (e dico forse) ci resta ancora qualche ora di tempo per provare a cambiare rotta.

Nella dinamica dei sistemi complessi esiste un grado di complessità oltre il quale il sistema diventa instabile e questo punto viene chiamato “biforcazione catastrofica”. Ammetto che il nome può sembrare un po’ drammatico, ma in effetti si chiama così proprio perché a partire da quel punto l’orizzonte degli eventi per il sistema si riduce a un’infinità di casi in cui il sistema collassa sgretolandosi nelle sue componenti semplici più stabili, oppure a poche opportunità nelle quali è in grado di riorganizzarsi per gestire al meglio un grado maggiore di complessità. Questo concetto di certo non è nuovo a chi ci conosce meglio, ma sono sicuro che risulterà intuitivamente familiare anche a chiunque di voi si occupa quotidianamente di organizzare sistemi sociali (siano essi imprese, associazioni o istituzioni). Se guardiamo alla cronaca di questi giorni, tutte le organizzazioni a prescindere dalla propria funzione sociale (dalle famiglie fino agli stati) sono alle prese con una nuova sfida evolutiva, con il bisogno di adattarsi a una nuova normalità per poter sopravvivere.

Parlare di “nuova normalità” è già di per sé curioso, visto che la normalità (ovvero l’aspetto che i fenomeni assumono nella maggior parte dei casi in cui si manifestano) è intrinsecamente un concetto dinamico. Non si può “tornare alla normalità”, ogni volta che diciamo questa frase probabilmente lo facciamo perché non ci siamo ancora adattati alla “nuova normalità”, ed è proprio in questa terra di nessuno che si giocano le partite più importanti per le nostre società. Fenomeni che hanno un impatto così globale e pervasivo come ad esempio il Covid-19 hanno il potere di mettere in evidenza tutte le contraddizioni su cui sono costruite le nostre società, di gridare tutte le domande etiche che normalmente riusciamo così bene a ignorare. Il mondo non è cambiato, il mondo è sempre lo stesso intreccio di bisogni, relazioni ed emozioni che pervadono i nostri media, i nostri ambienti di lavoro e le nostre famiglie. Semplicemente, nella tragedia che stiamo vivendo abbiamo avuto la possibilità per una volta di non ignorarlo.

Mentre la classe dirigente del nostro Paese è giustamente impegnata giorno e notte a gestire questa emergenza, tutti noi dobbiamo essere consapevoli però che quello che è successo non è un “cigno nero” e che la domanda che dobbiamo farci non è se succederà di nuovo, ma quando succederà di nuovo. Convincerci che questo periodo sia imprevedibile e irripetibile potrà servire forse ad alleviare la coscienza di alcuni e le ansie di altri, ma ci farà poi trovare impreparati nel momento del bisogno. Penso ad esempio alla necessità di coordinare e rendere più efficace la ricerca scientifica, dando la priorità nella prima fase delle emergenze al poter capire più rapidamente i fenomeni contando su dati più facilmente confrontabili, o ancora allo stabilire regole condivise per la gestione dei flussi commerciali o migratori evitando che si inneschino spirali controproducenti di ritorsioni tra stati. Tutto questo lo potremo fare soltanto se non ci accontenteremo di dirci che “è stato un cigno nero”: solo così avremo la spinta evolutiva necessaria per continuare ad attingere alle nostre migliori competenze anche quando la fase più acuta dell’emergenza sarà finita.

Ora che abbiamo avuto l’ennesima prova non solo di quanto il mondo sia interconnesso, ma anche di quanto lo siano le nostre vite e i singoli aspetti della nostra vita tra loro, abbiamo anche l’opportunità di attivarci per raggiungere forme di organizzazione (di stati, di imprese, di vite) in grado di affrontare le sfide di un mondo complesso. Forse in futuro sorrideremo ripensando all’importanza che le nostre organizzazioni davano a una slogatura o a un po’ di influenza rispetto a quella che davano all’ansia, il malessere o l’ignoranza. Se così sarà, potremo dire che questa fase tragica non è stata combattuta invano e forse vivremo una normalità migliore.

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