Reputazione: capitale del terzo millennio

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Da bambino, di tanto in tanto, i miei genitori mi portavano a Erchie, un paesino in Costiera Amalfitana che conta poche decine di anime e si affaccia direttamente sulla spiaggia, lì dove mia madre ha trascorso tutte le estati della sua infanzia e adolescenza. Non essendo un frequentatore abituale di quei luoghi, capitava spesso che qualcuno del paese fermandomi mi chiedesse “A chi appartieni?”. Dalla risposta dipendeva la considerazione che quella persona avrebbe avuto di me. Bravo bambino o ragazzino maleducato? La fama e la reputazione all’epoca erano forse riassumibili in quelle ingenue parole, “a chi appartieni”. Essere riconosciuti all’interno della piccola comunità come un’autorità, a qualsiasi titolo, escludeva il mercato locale a qualsiasi altro outsider/competitor. Semplicemente non vi era possibilità di essere messi in discussione.

La parola del dottore del paese era semplicemente legge, il prodotto venduto dall’emporio dietro casa era l’unico trend accettato e frequentare il circolo sotto casa era l’unica garanzia di affidabilità di cui si aveva bisogno. Scegliere di appartenere a una grande organizzazione, a un partito o a un sindacato voleva prima di tutto dire senso di appartenenza. Le persone, nella loro individualità, godevano di autorità, e questa derivava dal possesso della conoscenza: la conoscenza medica, la conoscenza contrattuale, la conoscenza del mercato.

La reputazione non è un tema nuovo. Si parla di reputazione da sempre. È reputazione il rating delle imprese, degli Stati, la reputazione è una componente dell’avviamento, la reputazione è importantissima nella comunicazione e la reputazione è un facilitatore, uno straordinario facilitatore, nelle negoziazioni e nelle trattative. Ma perché allora sono qui a dirti che oggi è diventata un tema cruciale? Perché quello che è successo in questi anni costituisce un cambio di paradigma che non può lasciare indifferenti le grandi organizzazioni? Quello che è successo in questi anni con l’avvento delle reti, e che ha subito l’accelerazione finale con il Covid ha fatto saltare tutti i sistemi.

Già con l’avvento delle reti la conoscenza è diventata disponibile 24 ore su 24. Le informazioni che vogliamo sulle persone e le organizzazioni che vogliamo sono li a portata di click. Se qualcuno si presenta possiamo sapere tutto di lui in pochi istanti, mentre stiamo ancora conversando. Se vendiamo un prodotto possiamo paragonare il prezzo con altri 15.000 negozi nel mondo. Se un oncologo ci consiglia una terapia, possiamo in pochi istanti vedere un video Youtube del più grande luminare del momento che dice che quella terapia è ormai superata.  Non sto facendo apologia del web, sto descrivendo delle situazioni che propongono degli interrogativi reali:

  • Come riconoscere le buone informazioni da quelle cattive?
  • Come scindere la realtà dalla distopia?
  • Come scegliere i media a cui dare affidabilità?

Citando un professore della Stanford University, Leslie Berlin, “Cambiando gli strumenti si cambia il contenuto”. Vale a dire che le nuove tecnologie hanno portato innovazioni destinate a cambiare non solo il modo in cui parliamo, ma anche quello che diciamo.

Ma se cresce l’accelerazione verso il progresso tecnologico, allora aumenta anche l’importanza di pensare in modo critico alla tua vita, alla tua carriera, al tuo futuro. Il cambiamento tecnologico agisce un po’ come le onde dell’oceano. Quando le vedi arrivare puoi sfruttare lo slancio a tuo completo vantaggio e cavalcarle. Se ignori però l’onda all’orizzonte o non ti sei preoccupato di migliorare le tue abilità sulla tavola, molto probabilmente verrai travolto e trascinato via.

In passato era molto più semplice ignorare le tendenze, si avvicinavano più lentamente e avevano un impatto più lieve e graduale sulla vita di tutti i giorni. John D. Rockefeller ha intuito le potenzialità del petrolio, ha riconosciuto quella tendenza in arrivo, ma ha poi lavorato per decenni e decenni all’accumulo della sua fortuna. Oggi, due studenti universitari possono diventare miliardari in un anno con una nuova app fotografica. Tutto cambia velocemente, le onde diventano sempre più anomale, così come diventano più grandi le ricompense per aver avvistato e cavalcato quelle onde.  Allo stesso tempo, l’impatto della tecnologia sul quotidiano genera ogni giorno nuove limitazioni in ambito lavorativo e mette in discussione costantemente quella che veniva definita “autorità” e che apparteneva di diritto a determinate persone o categorie.

Il termine Autorità (dal latino auctoritas) fonda le sue radici su un modello gerarchico in cui il capo ricopre il vertice più alto, al di sotto del quale ci sono i cosiddetti dipendenti. È proprio nell’era della società industriale che si afferma il modello gerarchico funzionale dove tutto dipendeva dall’autorità del capo investito di poteri direttivi e di funzioni di comando. Ecco che oggi quando si parla di autorità si deve far riferimento al potere esercitato dal grado massimo all’interno di un’organizzazione che vantando di una certa superiorità, esige obbedienza in tutto ciò che riguarda le sue decisioni, siano esse più o meno corrette. Per fare un esempio il dirigente di un reparto che gode di potere direttivo nei confronti dei suoi collaboratori è identificato da essi come “autorità”. Diverso è il concetto di Autorevolezza (dal latino gravitas) che non viene imposta e si basa piuttosto su una qualità riconosciuta a chi, dimostrando un atteggiamento partecipativo piuttosto che direttivo, ha la capacità di coinvolgere gli altri e influenzarne i comportamenti. Per riprendere l’esempio precedente, se il dirigente del reparto assumesse un comportamento tale da meritare fiducia e stima da parte dei suoi collaboratori, sarà riconosciuto come autorità (in senso gerarchico) e allo stesso tempo autorevole.

Ed è proprio in un’epoca di infodemia, dove ognuno di noi è bombardato di contenuti dalla mattina alla sera, dove diventa sempre più complesso scindere ciò che è vero da ciò che è falso sia in termini di comunicazione che di business in generale che c’è sempre più bisogno di tracciare la reputazione di un’organizzazione, di tracciarne l’autorevolezza, di tracciare quella che in campo giornalistico si chiama “veridicità della fonte”. È chiaro sempre più come rispondere alla domanda perché io mi devo fidare di un organizzazione, di un giornale, di un brand, di un’istituzione o di una persona piuttosto che di un altro è la vera sfida di questa epoca post Covid19.

Cos’è la reputazione?

L’Enciclopedia Treccani definisce la reputazione in un modo molto interessante: “la reputazione è quello che dicono di te le persone quando lasci la stanza.”. Dopotutto, ragionandoci bene, la parola stessa viene da un verbo latino molto noto a chi ha fatto studi classici che è “puto, putas, putavi putatum, putare”, il cui significato è pensare, stimare, giudicare. Reputare in latino vuol dire proprio dare un giudizio, attribuire un determinato valore, una qualità o caratteristica a qualcuno o qualcosa in base a ragionamenti e valutazioni “proprie”. Ed è proprio quel “proprie” che fa tutta la differenza di questo mondo. Non stiamo parlando di un concetto nuovo o mutato. Molti settori tradizionali della nostra economia sono da sempre basati sulla reputazione. Pensiamo al mondo delle assicurazioni, delle auto, dell’accesso al credito, o ancora ai rischi finanziari o al funzionamento di un intero sistema Paese. Sono tutti mondi basati su reputazione.

Lo spread ne è un esempio molto concreto, perché misura il livello di fiducia che altri Paesi hanno nei confronti del nostro sistema, valutato non solo per le imprese e gli scambi commerciali che lo costituiscono, ma anche per le qualità del governo, della classe dirigente e della società civile. Si tratta di un concetto complesso. Non a caso, fino ad oggi, tutti gli strumenti deputati alla misura della reputazione sono stati in grado di catturare aspetti limitati che contribuiscono alla sua formazione. Abbiamo strumenti in grado di captare la reputazione economica, altri concentrati sulla reputazione sociale e oggi vanno di gran moda quelli che parlano di reputazione online e di sentiment.

Tutti quelli che oggi parlano insistentemente di reputazione fanno riferimento a un particolare aspetto di essa come fosse l’unico. Nessuno tiene conto invece di quanto la reputazione implichi più dimensioni complesse da analizzare. Non ha senso parlare di Reputazione al singolare, è più corretto ed è necessario parlare di Reputazioni. Questo perché abbiamo diversi parametri per valutare la reputazione di un brand o di una persona. Facciamo un esempio banale: se pensassimo alla reputazione di due marchi di pasta, uno potrebbe avere una migliore reputazione di prodotto, per un utilizzo di grani selezionati, una lavorazione accurata, una maggiore tenuta alla cottura, ma l’altro potrebbe avere una migliore tenuta finanziaria, avere i conti in utile e attirare investimenti dall’estero per il suo solido modello di business. Come consumatori forse avremmo più interesse per il primo dato reputazionale, come investitori probabilmente per il secondo.

Acquistano così sempre più importanza, nella misurazione sistematica di alcuni parametri della reputazione, i Rating. Da dove nascono?

Nascono nel mondo della finanza, basta fare nomi come Moody’s, Standard and Poors, Fitch. Era inevitabile all’inizio nascesse un rating in quel campo. Sì, perché quando si parte dal proprio piccolo, dal proprio microcosmo, e si arriva ad agire su un territorio grande quanto il mondo, su quali parametri si dovrebbe basare il proprio comportamento?

Se, ad esempio, compro un fondo di investimento, e scelgo i Morgan Stanley Real Estate, quello che sto facendo, in realtà, è mettere i miei soldi in un grattacielo di Hong Kong a caso. Lo andrò mai a vedere il grattacielo di Hong Kong? No, non so nemmeno se realmente esiste. Allora avrò bisogno di qualcuno che mi tracci l’affidabilità di quel fondo, l’affidabilità di quel paese, l’affidabilità di quel titolo. Il baricentro del sistema economico si sposta sempre più quindi dal capitale alla persona e questo sta trasfigurando in maniera inimmaginabile l’economia mondiale.  Appare ormai sempre più chiaro che, dopo la quarta rivoluzione industriale, ovvero quella dell’Internet of Things, la quinta rivoluzione industriale sarà quella della Reputazione. Tutte le nostre scelte saranno sempre più legate a domande come “ti fidi di me?”, “ti fidi di questa azienda?”, “ti fidi di questa organizzazione politica, sindacale o economica che sia?”.

Concetti come reputazione, fiducia e trasparenza stanno assumendo significati sempre più rilevanti. La reputazione diventa l’unico elemento di garanzia del sistema, se si accompagnerà alla massima trasparenza in termini di autorevolezza. Infatti, man mano che la filiera si appiattisce, svaniscono tutti gli elementi di garanzia. D’altro canto, se ci riflettiamo bene, già la filiera di distribuzione si regge su un insieme di credenziali Reputazionali. Dal piccolo negozio alla catena in franchising, dal grossista alla fabbrica dei marchi di qualità, fino ai luoghi di origine delle materie prime. Così come avviene sui mercati finanziari, nessuna persona è in grado allo stato attuale di conoscere e governare in modo approfondito le varie dimensioni della reputazione. In realtà, un brand non è in grado neanche di dare un peso tangibile alla propria reputazione, nonostante il mercato borsistico dica che gli asset legati a essa valgano 6 miliardi di dollari. Per questo ogni brand e ogni organizzazione ha sempre di più la necessità di costruire un consenso diffuso.

Per ottenerlo, le parole d’ordine sono:

  • collaborazione
  • fiducia
  • rete
  • organizzazione

Ma, per snocciolare la questione, non possiamo più badare solo al consenso diffuso. Dev’essere chiaro. Il tema centrale non riguarda minimamente il “piacere a tutti”. Per citare una frase del sempre saggio Mogol, contenuta in una canzone di Lucio Battisti

“L’applauso per sentirsi importante, senza domandarsi per quale gente”

Nessun Dolore, 1978

Le organizzazioni e le reti tendono e tenderanno sempre di più a scambiare reputazione con azioni.  Da tempo si è consolidata la consapevolezza che qualsiasi cosa facciamo, qualsiasi relazione instauriamo, queste incidono necessariamente sulla nostra reputazione e questo diventerà l’aspetto fondamentale della quinta rivoluzione industriale: quella della “Reputazione”.

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