Quando sono stato eletto senatore in Basilicata, nel 2018, ho compreso subito che una delle mie parole d’ordine sarebbe stata “Sud”. In Italia la questione meridionale non è mai stata risolta. Il Sud porta tuttora sulle sue spalle il fardello di una storia non riconciliata e di un’economia per troppo tempo sbilanciata sull’asse settentrionale. Eppure, prima dell’Unità d’Italia, le cose stavano diversamente. Il Sud non era certo l’El Dorado ma la ricchezza di alcune delle sue aree poteva paragonarsi a quella media del Nord.
L’unificazione non fu pacifica come narra la storia ufficiale, ma aprì una ferita profonda per interi territori che vissero quel passaggio come una violenza da parte di una classe dominante distante anni luce da loro. Il caso del Museo intitolato a Cesare Lombroso, per la cui profonda revisione mi sono speso in prima persona insieme ad altri colleghi, rientra in questa logica. La nostra è una battaglia per accendere i riflettori su una storia mal raccontata. Lombroso non fu uno scienziato in buona fede, ma un uomo perfettamente organico alle forze politiche dell’epoca, il quale costruì le sue balzane teorie sull’atavismo criminale dei meridionali proprio per giustificare le nefandezze che furono compiute in quel periodo.
Questo non significa certo riportare indietro le lancette della storia. Ho il dovere di essere fedele alla Repubblica e sono anche orgoglioso di svolgere una funzione pubblica con disciplina e onore. Ma se una vera unificazione e pacificazione ci deve essere, non può non partire da un serio ripensamento di ciò che è accaduto nel passato. E seguendo il bandolo della matassa dei decenni scorsi, arriviamo al presente.
Credo basti un dato su tutti: secondo un recente studio della Società italiana di pediatria, i neonati e bambini meridionali hanno il 50% del rischio in più di ammalarsi e morire. Perché? A causa delle disuguaglianze territoriali, in questo caso in campo sanità, che costringono a migrazioni sanitarie dal Sud al Nord. I nostri figli, come tutti noi, hanno il diritto di curarsi al Sud con la certezza di trovare adeguati servizi assistenziali.
Molti addebitano questa disparità all’incapacità gestionale della classe dirigente meridionale. Troppo facile così. La verità è un’altra. Il “diritto di cittadinanza”, che implica uguaglianza di servizi, opportunità di lavoro, infrastrutture, trasporti in tutto il territorio nazionale, è stato puntualmente ignorato fin dai tempi della riforma del Titolo V della Costituzione. In Italia, la richiesta di federalismo e di autonomia rispetto al centralismo statale si è tradotta fin da subito nell’istituzionalizzazione di una disuguaglianza geografica.
La riforma fiscale è stata portata avanti con spietata lucidità in modo tale da ridurre sempre di più i trasferimenti statali al Sud. E, negli anni del rigore e dell’austerità, la smania aziendalista di “far quadrare i conti” ha fatto corto circuito con la tendenza federalista, lasciando i territori meridionali completamente sguarniti e desertificati. Nella sanità in primis, ma anche in tutti gli altri settori alla base del benessere collettivo: asili, scuole, treni, infrastrutture, ecc.
I conti pubblici territoriali ci raccontano una realtà completamente diversa da quel “sacco del Nord” propagandato per decenni. È evidente un progressivo svuotamento delle risorse per il Sud a vantaggio del Nord. Di fronte a questa ingiustizia storica, le comunità meridionali non chiedono pietistiche elargizioni, ma azioni decise per colmare il divario di sviluppo, come previsto espressamente dalla Costituzione e dalle norme europee.
Oggi abbiamo l’occasione per risolvere le disuguaglianze territoriali, e si chiama Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). È il pacchetto di misure elaborato a partire dai fondi del Next Generation EU e del Recovery Plan messi in campo dall’Unione europea per far fronte alla crisi generata dalla pandemia e per rilanciare lo sviluppo degli Stati membri. Tra i principi cardine del piano europeo è espressamente citata la riduzione dei divari tra i territori.
L’Italia, tra l’altro, si è vista assegnare maggiori risorse rispetto agli altri paesi in virtù di tre indicatori su cui hanno pesato fortemente i dati del Meridione: inverso del Pil pro capite, disoccupazione, popolazione. Se si fosse tenuto conto di questi indicatori anche nel riparto nazionale, al Sud sarebbe andata una quota tra il 60 e il 70% dei circa 209 miliardi di euro destinati al nostro paese.
Ma così non è stato, pur essendo le previsioni di un Regolamento comunitario vincolanti per gli Stati membri. Nel negoziato, portato avanti, spiace dirlo, soprattutto a livello di Governo e quasi estromettendo il Parlamento, si è arrivati al 40% per le regioni meridionali, pari a circa 82 miliardi (tenendo conto anche del Fondo nazionale complementare). Il punto è che nemmeno questi 82 miliardi sembrano così certi.
In base ad alcuni studi di stimati economisti, la cifra che certamente andrà al Sud con il PNRR sarà di 35 miliardi. Il resto è un po’ vago: nelle sei missioni del Piano, non vengono indicate le relative quote destinate al Sud. Il boccino sarà dunque nelle mani degli uffici governativi responsabili dell’attuazione delle misure, che ricorreranno a bandi tra le amministrazioni (forse con alcuni vincoli a favore del Sud, che però ad oggi sono ancora privi di una norma ad hoc).
Ciò significa che si innescherà un meccanismo di competizione in cui peserà molto la capacità di spesa degli enti locali. Il sillogismo per cui a essere penalizzato sarà il Sud è evidente. Lo abbiamo già visto nel caso degli asili nido, per i quali uno dei criteri d’assegnazione è la capacità delle amministrazioni di cofinanziare i bandi.
Il rischio è che ciò accada per ogni intervento, giocando sull’ambiguità dell’aggettivo “territorializzabile”. La novità rispetto al passato, però, è che i cittadini meridionali non hanno nessuna intenzione di stare a guardare. Si sta creando un fermento, una mobilitazione nelle comunità del Sud: le persone sono più informate, più attive. Non sono più disposte ad accettare passivamente le decisioni calate dall’alto. Non sono più i tempi di Lombroso.
È un movimento trasversale e inclusivo, che trova la sua linfa vitale in una società civile meridionale consapevole, istruita, dinamica, che ha compreso la revisione storica e non vuole la secessione ma il rispetto della dignità dei meridionali. Il Sud ha infinite risorse naturali, umane, agricole, paesaggistiche, culturali, storiche, imprenditoriali.
E oggi sta cominciando a riconoscere pienamente il proprio valore. Ciò che vuole il Sud si racchiude in una parola: equità. E, in nome di questa equità, porterò avanti le mie azioni politiche sul fronte del PNRR, dell’agricoltura (la riduzione dei fondi della PAC è uno scandalo che colpirà soprattutto i redditi dei produttori meridionali), dell’ambiente ecc. È una battaglia per la dignità cui non mi sottrarrò. Se il Sud rinasce e si sviluppa, rinasce l’Italia intera.