L’Italia aveva costruito, dalla fine degli anni ’60, una struttura industriale che si basava su circa 4mila medie aziende internazionalizzate e di grande eccellenza di prodotto, che gli economisti battezzarono “quarto capitalismo”, circondata da un arcipelago infinito di piccole e medie aziende legate al territorio, nate nei distretti che aveva individuato, già a fine Ottocento, il maestro di Keynes, Alfred Marshall.
Non si è mai compreso perché non sia mai stato favorito questo tessuto sociale ed economico, così creativo e importante, prettamente italiano e di grande eccellenza. Perché non sia mai stato veramente aiutato da una grande struttura bancaria adeguata e, soprattutto, non sia mai stato protetto da leggi statali di qualità tese a limitare la burocratizzazione esasperata e una pressione fiscale senza limiti.
A tutto questo si è aggiunta la pandemia, in uno dei tornanti più impervi della storia, che riserva inesorabili sorprese e ostacoli che vanno affrontati.
L’Italia è un arcipelago di piccole e medie industrie. Vale la pena di sorreggerle, aiutarle e arricchirle secondo criteri nuovi in tutti i settori, dall’organizzazione del lavoro, alla formazione alla qualità e innovazione di prodotto.
Tornano in mente le parole preveggenti di Alain Minc, lo scrittore e politico francese, che metteva in guardia sull’avidità degli stranieri, non sui territori, ma su migliaia di piccole e medie aziende italiane che sono l’indotto strategico per le più grandi imprese europee e in alcuni casi per quelle di tutto il mondo. Oggi l’Italia appare come un Paese in svendita con tanti cartelli appesi a fabbriche, aziende, imprese che una volta rappresentavano l’eccellenza del Made in Italy. Si
portano all’estero le nostre capacità, il nostro know-how e i nostri giovani talenti a cercare maggior fortuna nelle località più disparate del globo. Sono tantissime le realtà vendute, o per meglio dire svendute, al miglior offerente straniero, come in un gigantesco outlet che pubblicizza i suoi prezzi stracciati e le rimanenze di magazzino.
Fondi d’investimento, holding, raider finanziari alla Gordon Gekko del bellissimo film “Wall Street” di Oliver Stone, negli ultimi anni, hanno razziato più di 500 marchi storici italiani: dalla Birra Peroni alla Pininfarina, da Italcementi a Pirelli, da Poltrona Frau a Valentino, senza dimenticare le squadre di calcio (Inter, Milan,
Roma, ecc.) finite in mani straniere. Il governo cerca di tamponare con qualche “pezza a colori” una situazione deteriorata, mentre la campagna acquisti del nostro patrimonio industriale da parte di Fondi finanziari e multinazionali straniere prosegue a ritmi serrati.
È di questi giorni l’incessante mobilitazione dei lavoratori e dei sindacati di Trichiana nel bellunese dove sorge lo stabilimento Ideal Standard che dà lavoro e sostentamento a 500 lavoratori e altrettante famiglie. Ideal Standard è un’azienda simbolo dell’arredo e del design italiano, acquisita da diversi anni con la tecnica del “Leverage buy-out”, un meccanismo infernale per cui si rilevano aziende ad alta liquidità, caricandole dei finanziamenti sostenuti per l’acquisizione stessa, comprandola cioè con i suoi stessi soldi, da Bain Capital e successivamente da altri due Fondi (Anchorage Capital e CVC).
I tre “amigos” proprietari del marchio, anche se pubblicamente smentiscono, sono assolutamente determinati a chiudere l’impianto produttivo, delocalizzare verso l’est Europa e il nord Africa, smantellare tutto e investire i profitti generati in attività più redditizie (calcio, media, new economy). Il risultato è che oggi la Ideal Standard di Trichiana e i suoi 500 lavoratori sono sotto la forca di una ristrutturazione strisciante che potrebbe portare a una possibile chiusura dello stabilimento e alla desertificazione industriale e sociale di tutto il territorio.
L’attuale management, negli incontri con i sindacati e il Governo italiano, tergiversa. L’amministratore delegato non si presenta agli incontri e manda al suo posto
rappresentanti dell’azienda senza nessuna delega sulle decisioni da prendere. Nei progetti del Gruppo sembra esserci anche la cessione del marchio “Ceramica Dolomite”, un brand storico italiano creato nel 1965 grazie ai fondi statali stanziati dopo la tragedia del Vajont per sostenere l’economia del bellunese.
La ragione di un simile fallimento sta nella rapacità e nell’incapacità di questi Fondi Internazionali di comprendere il significato di sostenibilità e le logiche industriali di un business fatto di prodotto, di tecnologia, di servizio, di competenza. I lavoratori e i sindacati fanno quello che possono: scioperi, petizioni, manifestazioni, crowdfunding per sostenere una vertenza legale, contro una proprietà assolutamente sorda e lontana dal territorio. Una lotta che, in assenza di una precisa volontà politica del Governo italiano di porre fine a questo scempio, sembra destinata a soccombere.
Il caso Ideal Standard, però, rappresenta solo la punta dell’iceberg. È in atto, ad esempio, un assalto ai nostri porti, con i tedeschi (il cui mirino è però puntato sulla meccanica, anche se nel 2015 non hanno disdegnato nemmeno la Italcementi) determinati a portarsi a casa quello di Trieste e forse Taranto. Insomma, una sciagurata campagna acquisti che, strada facendo, ha visto i giapponesi acquisire Magneti Marelli, Fiamm, DelClima e Daikin, oltre al passaggio di nostre altre belle realtà come Avio (ora nel portafogli della General Electric), Ansaldo Ferroviaria (da parte di Hitachi) e Rhiag (per mano della Lkw).
A questo drammatico quadro vanno aggiunte le 180 aziende in predicato di chiusura, come Mercatone Uno, Auchan, Whirlpool di Napoli, Acciaierie di Terni, Embraco, Treofan, Iveco di Brescia, per non parlare della ex Ilva di Taranto. Lo scenario che si prospetta, purtroppo indipendentemente dalle “mediazioni” governative, assomiglia sempre più a un “day after” post nucleare, con migliaia di lavoratori e famiglie costrette a tirare la cinghia per la perdita di migliaia di posti di lavoro.
Per anni ci hanno decantato le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione. Adesso che i nodi giungono al pettine nessuno sa che pesci pigliare. I governi democratici, che avevano di molto sottovalutato gli effetti macroenomici di questa scelta, oggi sono in balia degli eventi. Gli stessi Stati Uniti stanno pensando di riportare in patria le produzioni delocalizzate in Cina ed Estremo Oriente, cercando di imporre dazi doganali, imposte, tasse sulle importazioni, ma di fronte alla potenza economica e industriale delle multinazionali e delle holding finanziarie mondiali, arrancano visibilmente.
L’unica alternativa è quella di imporre regole certe, legate alla presenza sul territorio, a questi nuovi “capitani di ventura” che, con modi diversi ma nella sostanza identici, si comportano come le truppe mercenarie del Medioevo. Razzie, saccheggi e bottino per i vincitori. La finanza non è e non può essere tutto altrimenti a che servono le leggi, i diritti civili, i tribunali, i parlamenti, l’Onu, l’Europa? Se su tutto, alla fine, prevale il denaro, le azioni, i “leverage” e i consigli di amministrazione?