Quanto vale, oggi, il lavoro di un medico impegnato in prima linea ad affrontare la pandemia all’interno di una struttura territoriale o ospedaliera? Qual è il reale valore economico e sociale di una professione a cui si chiede il massimo livello di specializzazione ma, al tempo stesso, la si espone a sempre maggiori rischi sia in termini di tutela personale che legale? Qual è il livello di burnout cui sono sottoposti i medici italiani in questo contesto? Come incide la performance del professionista a difesa della salute del cittadino in una condizione di stress lavoro-correlato? In altre parole, quale è il vero “rating” di un medico che lavora in ospedale?
Un anno fa le risposte sarebbero state molto diverse da quelle di oggi. La pandemia ha scatenato un’ondata di rivalutazione reputazionale senza precedenti verso i medici e le professioni sanitarie, soprattutto sulle specializzazioni che si sono rivelate più necessarie sul campo, sia alla luce dell’importanza oggettiva delle loro competenze che per l’incondizionata ed evidente dedizione al proprio lavoro. Non che questi elementi non vi fossero prima, anzi. I medici del Sistema sanitario nazionale, e i medici ospedalieri in particolare, erano almeno dieci anni che rivendicavano, e rivendicano tutt’ora, di essere sotto organico, di essere privi di adeguate tutele contrattuali e professionali e di dover coprire con turni massacranti le carenze organizzative delle strutture. Il Covid ha esasperato tutto accendendo i riflettori sui mali che da tempo venivano denunciati, tentando di essere ascoltati al di fuori dei circuiti informativi degli addetti ai lavori.
Dal punto di vista reputazionale, non c’è dubbio che l’emergenza abbia temporaneamente ribaltato la prospettiva: il SSN e i suoi operatori sono diventati eroi con un ruolo di assoluta centralità nel nostro Paese, la loro esistenza ha oggi implicazioni sul mondo del lavoro e sul tessuto economico, sul PIL e sulle prospettive di ripresa. Ma questa è solo una parte, neanche tanto consolatoria, della storia. La realtà è che le nostre strutture sanitarie hanno subito un vero e proprio stress test che ha messo a nudo punti di forza e di debolezza ben noti, ma che è servita a stimolare finalmente quel necessario dibattito sul futuro della sanità italiana. Il tema ora è che qualunque intervento non deve operare una semplice manutenzione o gestione di un assetto emergenziale, ma incidere con una vera riforma strutturale che vada oltre i finanziamenti del MES o del Recovery Fund.
Serve una riforma anche culturale che parta da quel generale apprezzamento internazionale del nostro servizio sanitario ma che, di fatto, è molto complessa. Perché la nostra sanità è organizzata in silos, è poco dialogante al proprio interno e troppo autoreferenziale su tutti i livelli decisionali, a partire dall’autonomia tra le Regioni, alla gestione delle singole aziende, fino ai rapporti tra le stesse professioni sanitarie. Tale contesto, caratterizzato anche da una ridotta sostenibilità economica del sistema, ha fatto venir meno in questi anni la vera mission delineata dalla Legge che quarant’anni fa (L. 883/78) ha segnato la conquista di un servizio sanitario nazionale basato sull’universalismo, sull’equità e sulla accessibilità alle cure per tutti: ogni persona sul tutto il territorio, qualunque sia il suo reddito, provenienza ed età deve poter essere curato con gli stessi standard e qualità.
Oggi fortunatamente è emersa, con forza, la resilienza dei medici e dei professionisti della salute che hanno dato una risposta pronta alle situazioni emergenziali di questi mesi, pur pagando un prezzo molto alto. L’attuale fase di rebound del virus mette a serio rischio il loro lavoro, più che la loro reputazione. Non sprechiamo l’occasione per riformare il nostro SSN partendo da una necessaria valorizzazione, al di là dei soliti encomi formali alla categoria, dei professionisti della salute, perché è da qui che parte la tutela dei reali bisogni dei cittadini.