Un traguardo ancora lontano

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L’Italia è fanalino di coda nelle classifiche internazionali sul gender gap, tanto che l’attuale Governo ha individuato le politiche per le donne come una delle tre priorità trasversali nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Secondo il report Global Gender Gap 2020 del World Economic Forum, in una classifica di 153 paesi noi siamo al settantaseiesimo posto, quart’ultimi tra i paesi dell’Europa occidentale superando solo Grecia, Malta e Cipro. A rendere più difficile nel nostro Paese la partecipazione delle donne al mondo del lavoro sono radici culturali originate nel contesto familiare e in quello della formazione prima ancora che in quello del lavoro, da antichi stereotipi che fanno sì che poche donne siano iscritte alle lauree in materie STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) molto richieste dall’attuale mercato del lavoro, assenza di un welfare che consenta di ripartire tra uomini e donne i carichi familiari in maniera equa. Tutto questo determina non solo svantaggio individuale ma anche la perdita di un patrimonio di energie e di un valore economico significativo. Non è quindi solo un problema delle donne, ma una questione di efficienza economica.

Il tasso di partecipazione delle donne al mondo del lavoro è del 53,1% in Italia, molto inferiore al 67,4% della media europea e persiste anche un ampio divario di genere nel tasso di occupazione, pari a circa 19,8 punti percentuali nel 2019 (fonte PNRR). La pandemia ha peggiorato la situazione, allontanando ulteriormente il traguardo della parità. Qualche anno fa uno studio di Banca d’Italia ha dimostrato che un tasso di occupazione femminile del 60% sarebbe in grado di aumentare il PIL del 7%: non c’è dunque alcun dubbio sull’opportunità di rimuovere gli ostacoli che penalizzano l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro per utilizzare al meglio il capitale umano femminile.

Anche quando lavorano, però, le donne sono ulteriormente penalizzate. Secondo i dati raccolti con l’Inclusion Impact Index, lo strumento digitale per misurare l’efficacia delle politiche di diversità e inclusione di un’azienda sviluppato da Valore D con il supporto del Politecnico di Milano, donne e uomini hanno un trattamento retributivo diverso. In base alle risposte delle 90 aziende presenti nel database appartenenti a diversi settori, il differenziale tra donne e uomini nella media della retribuzione degli operai e degli impiegati è del 5,8% e aumenta fino a raggiungere il 12,4% guardando ai quadri e ai dirigenti. Il gender pay gap aumenta poi con l’età in tutte le categorie di inquadramento e rappresenta un problema estremamente radicato nella cultura aziendale italiana. Secondo i dati Eurostat, i differenziali salariali in Italia sono del 4,7% (contro una media europea del 14,1%) con differenze enormi tra settore pubblico e privato: 3,8% nel primo e 17% nel secondo. A tutto questo va aggiunto anche il cosiddetto “tetto di cristallo” ovvero una cultura organizzativa diffusa che determina la maggiore difficoltà di accesso delle donne ai ruoli apicali sia nel settore pubblico sia in quello privato, rafforzata anche agli arresti di carriera determinati dai periodi di maternità. Nel nostro Paese sono quasi esclusivamente le donne a farsi carico della cura familiare, per i bambini e per gli anziani, e lo fanno anche in misura maggiore che negli altri Paesi visto che, secondo la Relazione per paese relativa all’Italia 2020 della Commissione europea, il tasso di inattività delle donne dovuto a responsabilità di assistenza si assesta sul 35,7% contro il 31,8% della media UE.

La recente approvazione anche in Senato della proposta di legge di modifica del Codice delle pari opportunità potrà incidere positivamente sul problema. Questa, infatti, prevede misure di promozione della parità salariale, come ad esempio: l’abbassamento a 50 dipendenti della soglia che identifica per le aziende l’obbligo di comunicare i dati per genere su remunerazione e inquadramento dei propri dipendenti; l’applicazione delle quote di rappresentanza di genere nelle società controllate dalle pubbliche amministrazioni per ulteriori tre mandati e con una soglia del 40%, come avviene per le società quotate. Prevede l’introduzione di un meccanismo incentivante identificato con l’istituzione dal 1 gennaio 2022 della certificazione della parità di genere, un bollino di qualità per le aziende virtuose che offrono opportunità di crescita paritarie, parità di retribuzioni a parità di mansioni, politiche di gestione delle differenze di genere e tutela della maternità.

Recentemente ho avuto l’opportunità di portare la visione e le proposte di CIDA, la confederazione dei dirigenti e delle alte professionalità del pubblico e del privato, all’attenzione dei parlamentari in occasione di un’audizione presso la Commissione Lavoro della Camera dei deputati sulla proposta per la direttiva sulla trasparenza salariale della Commissione europea. Ho detto anche in quella circostanza che, a nostro avviso, si deve ripensare alla conciliazione come a un problema che riguarda uomini e donne e non solo queste ultime. I dati sul tempo dedicato dagli uomini alla cura dei figli ed al lavoro domestico in Italia
sono sconfortanti ed è necessario contribuire con ogni mezzo a contrastare una visione culturale anacronistica e a combattere gli stereotipi di genere ancora radicati nella nostra società. È necessario estendere il livello di fruibilità e di efficienza dei servizi di cura all’infanzia e alle persone non autosufficienti in modo da liberare risorse prevalentemente femminili per il mercato del lavoro e creare al contempo altre opportunità di lavoro. Si deve incentivare l’apertura di asili nido aziendali o interaziendali in aree produttive o commerciali ad alta densità, in quei contesti dove ciò è reso possibile, ben sapendo che la prevalenza di imprese di piccola dimensione in Italia è un ostacolo a tale servizio che in altri paesi europei è invece maggiormente diffuso. Si deve intervenire sulla cultura delle organizzazioni, favorendo le attività a sostegno della diversity a tutti i livelli, pretendendo trasparenza delle policy retributive e dei meccanismi di incentivazione e oggettività dei percorsi di sviluppo, favorendo la realizzazione di adeguate forme di welfare aziendale e sostenendo forme di lavoro flessibile incentivando processi trasparenti di scelta per l’attribuzione delle posizioni apicali.

Prova concreta della visione e dell’impegno di CIDA sono le iniziative realizzate dalle Federazioni ad essa aderenti. Tra queste, val la pena di citare Federmanager che, nel rinnovare il Contratto collettivo nazionale di lavoro dei dirigenti industriali con Confindustria, ha agito con grande lungimiranza facendo in modo che fosse inserito un apposito articolo dedicato alle pari opportunità nell’accordo del luglio 2019. Per la prima volta, dunque, nel contratto di lavoro di categoria è stato scelto di porre l’accento sul tema, con particolare attenzione all’equità retributiva tra uomini e donne manager e allo sviluppo di politiche aziendali idonee a consentire il sereno svolgimento della funzione genitoriale e la piena ripresa del rapporto con l’azienda al momento del rientro al lavoro dopo il periodo di congedo. Anche Manageritalia, altra Federazione aderente a CIDA, ha promosso nei mesi scorsi una proposta di legge (AC2424) che intende affrontare il tema della disparità salariale tra donne e uomini e mettere in atto possibili azioni correttive per favorire un cambiamento culturale e l’adozione di strumenti operativi che possano contribuire a raggiungere l’obiettivo della parità nella remunerazione delle donne e degli uomini. La proposta di legge non garantisce la trasparenza dei livelli retributivi all’interno dell’azienda ma affida ad un organo terzo, estraneo all’azienda (la consigliera di parità) il potere di intervenire e verificare se esiste una disparità. A tale scopo conferisce alla consigliera di parità la possibilità di accedere ai dati retributivi dei dipendenti che le aziende trasmettono all’Inps e di agire sia spontaneamente con verifiche a campione in forma anonima sia su segnalazione di una lavoratrice che si ritiene discriminata. La proposta prevede che, in caso di riscontrata disparità di trattamento la consigliera potrà intervenire con diffida presso l’azienda o mediante segnalazione all’ispettorato del lavoro. Alla base della proposta c’è la convinzione, condivisa da CIDA, che un ruolo di vigilanza e consulenza diretta e positiva delle consigliere di parità nelle aziende, che stimoli comportamenti virtuosi in queste ultime, sia molto più efficace che non obbligare le aziende a riempire rapporti che troppo spesso nessuno legge.

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