Verità vs Viralità ai tempi del Covid19

Infection, smog, air pollution in south korea, wuhan coronavirus COVID-2019 concept. Colorful asians people wearing face medical masks, respirators. Modern flat style. Vector illustration.

Nuove regole che governano la comunicazione

La situazione è critica. In tutto il mondo c’è un virus che sta contagiando milioni di persone e uccidendone a migliaia. In un’epoca infodemica come questa, tutto ciò diventa argomento centrale e incontrollabile. Nonostante a livello oggettivo l’Italia sia risultata tra le nazioni con la reputazione migliore a livello internazionale per la gestione della pandemia (come da nostra indagine riportata anche dal New York Times) e nonostante sia chiaro che allo stato attuale non ci siano modelli democratici ai quali ispirarsi per una gestione migliore, si assiste ad un dilagare di notizie di ogni genere, ad una totale incertezza comunicativa e ad una totale mancanza di guida
sanitaria decisa.

Il fatto è semplice, esistono delle nuove regole che governano la comunicazione. Queste regole vanno cambiate? Sì. Sono giuste? No. Mi pare però oggettivo che sono state sottovalutate troppo a lungo e che vadano approfondite e combattute con armi uguali e contrarie.

Una grande organizzazione deve poter far valere la propria reputazione ed è per questo che mi chiedo: perché non governare meglio quei flussi di comunicazione, capendone le dinamiche, inserendosi e dando un messaggio chiaro e preciso?

Purtroppo, verso la fine del mese di ottobre, sono risultato positivo con sintomi al Covid19, isolato in un albergo di Milano, senza la possibilità di contatti. Difficile da gestire come cosa, anche a livello emotivo. C’è un tipo di comunicazione che va in ogni direzione, da quella negazionista a quella terroristica, e mentre magari i tuoi sintomi sono semi gravi, rientra tutto nello sconforto.

Nel frattempo però, si resta in attesa di capire come si fa un tampone, come si deve dichiarare la propria positività su Immuni (non ci sono riuscito), come si deve comunicare la propria positività all’Asl se si è fuori sede (non ci sono riuscito), come si possono prenotare i tamponi per vedere se si è positivi (non ci sono riuscito per un bel po’), che cura fare.

Così ci si accavalla nel dire la propria, nel cercare di avere un like in più, ma non si decide di veicolare un’informazione chiara e precisa sul da farsi. Ok, laviamoci le mani e non prendiamocelo, ma se lo prendi non ci può essere un protocollo chiaro che non mandi tutto nel caos?

Perché è quel caos che poi dà vita ad un incessante dilagare di fake news. Ed è proprio in un’epoca di infodemia, dove ognuno di noi è bombardato di contenuti dalla mattina alla sera, dove diventa sempre più complesso scindere ciò che è vero da ciò che è falso (sia in termini di comunicazione che di business in generale), che c’è sempre più bisogno di tracciare la reputazione di un’organizzazione, di tracciarne l’autorevolezza, di tracciare quella che in campo giornalistico si chiama “veridicità della fonte”.

È sempre più chiaro come rispondere alla domanda perché mi devo fidare di un’organizzazione, di un giornale, di un brand piuttosto che di un altro, sia la vera sfida in quest’epoca post Covid19. Mentre proviamo con Reputation Rating a rendere questo concetto realtà, credo che qualsiasi grande organizzazione abbia il dovere di capire perché un contenuto diventa virale, capire come funziona per poter contrastare realmente il dilagare di cattive informazioni e di falsità.

La prima domanda che un’organizzazione dovrebbe porsi è:

Perché decidiamo di condividere un contenuto?

Quando condividiamo un contenuto, lo facciamo principalmente per guadagnare la nostra parte di social currency, la valuta sociale, ossia quel valore che otteniamo interagendo e socializzando con altre persone. Il fatto che un contenuto sia interessante è il presupposto che ci spinge a condividere, ma non è il motivo. Siamo invece motivati dal valore che otteniamo in termini di buona reputazione, rispetto e senso di appartenenza. È come se realmente ci fosse una banconota che ogni volta che condividiamo un contenuto entra nelle tasche del nostro patrimonio reputazionale.

Questo spiega ad esempio il fatto che il sesso nel marketing virale non funziona, contrariamente a quanto verrebbe da pensare. Condividere contenuti di questo tipo ci metterebbe a rischio di essere giudicati negativamente e non è un rischio che vogliamo correre, non è questa la moneta che ci interessa incassare. La valuta sociale che accumuliamo aumenta la nostra autostima e proietta all’esterno una buona immagine di noi. L’essere umano desidera stare bene con se stesso e avere conferma del proprio valore, per questo cerca continuamente di consolidare e accrescere la propria autostima, è un bisogno innato.

Quindi l’immagine che comunichiamo come organizzazione deve infondere uno status. A prescindere che ci si trovi nel campo del profit, del no-profit o anche delle istituzioni.

MCDONALD’S non vende hamburgers, vende la velocità del servizio.
AMAZON non vende prodotti, vende comodità.
RED BULL non vende energy drink, vende avventura e adrenalina.

Allo stesso modo la POLIZIA DI STATO vende sicurezza, le ORGANIZZAZIONI SANITARIE vendono salute e prosperità e i SINDACATI tutela e appoggio in caso di problemi. Se siamo vicini all’esperienza che raccontiamo diventa più facile vendere la nostra moneta, la nostra social currency e diventare punti di riferimento.
Un motore che spinge le persone a condividere contenuti sui social è proprio il desiderio di migliorare l’immagine che si ha di se stessi, cercando all’esterno conferme del proprio valore.

Condividiamo cercando segnali di approvazione (like, commenti e ulteriori condivisioni) per sentire l’apprezzamento altrui, quella pacca sulla spalla virtuale che ci dice: bravo, stai facendo bene, vai avanti così e questa approvazione rilascia delle endorfine che ci spingono a credere ancor di più che la strada intrapresa è quella giusta. Va da sè capire quanto sia pericoloso non avere la possibilità di governare i concetti dei quali siamo leader indiscussi. Se oggi ci sono tanti no-vax la colpa principale non può essere loro (che non esistevano) ma di una totale assenza delle grandi istituzioni sanitarie che dovevano vigilare sul tema.

Le emozioni

Le emozioni sono molto potenti perché ci motivano ad agire. Quando condividiamo un testo, un video, un’immagine, lo stiamo facendo perché proviamo un’emozione. Senza l’emozione che ci guida difficilmente agiremo. Le emozioni hanno un potenziale immenso: sono contagiose.

Pensiamo al potere che ha un sorriso e quanto questo semplice gesto possa creare empatia nella persona a cui lo regaliamo. Poiché di base cerchiamo sempre di piacere agli altri, è naturale desiderare di condividere emozioni positive facendo in modo che anche i nostri amici possano provarle. Per questo nelle campagne di comunicazione oggi si lavora sempre di più sul voler suscitare la giusta emozione da associare allo status e al valore che vogliamo trasmettere. Uno storytelling basato sulle emozioni è il primo ingrediente di una comunicazione efficace. Le emozioni sono quelle legate al principale sentimento percettivo del Brand.

L’aspettativa

L’aspettativa è un ingrediente importante nei contenuti che diventano virali. Anticipiamo l’emozione che proveremo quando si verificherà un determinato evento e questa sensazione di attivazione ci rende più propensi a condividere, perché agisce su di noi fisicamente e mentalmente. Quando siamo eccitati perché qualcosa di bello sta per accadere, abbiamo un forte desiderio di comunicarlo all’esterno. L’attesa, l’aspettativa e l’attivazione che ne consegue è uno stato fisiologico in cui ci prepariamo a tutto, perché non sappiamo esattamente cosa aspettarci. Siamo fisiologicamente eccitati e mentalmente vigili, abbiamo una forte attivazione di adrenalina, siamo portati a essere più socievoli e desiderosi di comunicare.

Saper creare aspettativa è quindi un elemento necessario, cosa accadrà ai nostri eroi se faranno ciò che noi vogliamo che facciano? Quali conseguenze ci saranno se invece sceglieranno il lato oscuro? Se non si raccontano queste cose, soprattutto su un lato emotivo, come si può pensare di entrare nel cuore dei nostri stakeholder?

L’affinità

L’affinità è quella sensazione che ci assale quando pensiamo a qualcosa che amiamo (un oggetto, un’attività o un’idea), una sorta di attrazione che provoca in noi un senso di pienezza e appagamento. Pensiamo ad esempio ai motociclisti: il loro amore per le moto è legato a un senso di libertà che accomuna tutti coloro che si riconoscono in questa passione.

L’affinità è diversa dall’emozione, perché si tratta di un sentimento che dura nel tempo, mentre l’emozione tende a svanire velocemente. È una passione viscerale molto potente per creare contenuti virali, perché fa leva su amore e identificazione, spesso si riconosce in una struggente nostalgia del passato. L’affinità crea identificazione e motiva le persone a condividere.

Un esempio è la pubblicità degli amplificatori Marshall vista sui social recentemente: due immagini identiche ma con slogan diversi. Il primo slogan diceva semplicemente “Amplificatori dal 1962” e passò praticamente inosservato. La seconda immagine diventò invece immediatamente virale, facendo leva con un diverso slogan sul senso di affinità di chi utilizza gli amplificatori Marshall. “Rompiamo le scatole ai vicini dal 1962”: una frase che evoca un passato fatto di rock ad altissimo volume, in cui automaticamente tanti chitarristi si sono riconosciuti.

Parte di un gruppo

Come esseri umani abbiamo un innato bisogno di affermare la nostra appartenenza ad un gruppo. Far parte di un gruppo è importante, è un istinto innato che ci
ha permesso nei millenni di sopravvivere come razza umana. Quando ci sentiamo parte di un gruppo abbiamo la tendenza a difendere ciò che ci tiene uniti, ciò che ci caratterizza e esprime la nostra unicità.

Per creare il giusto coinvolgimento del nostro target la strategia più efficace risulta essere sempre quella del “nemico comune”, spingendo le persone a difendere un punto di vista e una posizione che li caratterizza. Spinti da questa motivazione, gli appartenenti a ciascun gruppo tenderanno a invitare altri amici a partecipare, per supportare la causa e difendere l’appartenenza a quel gruppo.

Spesso funziona molto bene anche trovare un punto di differenza tra il nostro pubblico, qualcosa che li divida pur nell’appartenenza alla stessa categoria. Un’idea di marketing che ha avuto enorme successo è stata quella dell’azienda spagnola produttrice di birra San Miguel. All’interno del proprio target di consumatori di birra sono stati individuati due diversi gruppi: tifosi del Real Madrid e tifosi dell’Atletico Madrid. L’azienda ha creato un’app la cui finalità era scoprire di che colore era Madrid. Un gioco divertente in cui era necessario rispondere correttamente alle domande poste per poter colorare, tramite geolocalizzazione, la via della città in cui l’utente si trovava del colore della squadra del cuore.

Facile intuire che il gioco ha avuto enorme successo, diventando virale. Il coinvolgimento delle persone è stato totale, motivato dal desiderio di affermare il proprio senso di appartenenza. Il marchio di birre ha avuto la possibilità di poter targettizzare meglio i propri clienti e aumentare le proprie vendite.

La Reputazione come Marketing sociale

L’espressione “marketing sociale”, introdotta nel 1971 da Philip Kotler, veniva declinata, dallo stesso, in questo modo:
L’utilizzo delle strategie e delle tecniche del marketing per influenzare un gruppo target ad accettare, modificare o abbandonare un comportamento in modo volontario, al fine di ottenere un vantaggio per i singoli individui o la società nel suo complesso”.

Tutte le organizzazioni hanno un grandissimo bisogno di focalizzare il loro ruolo in termini di Reputazione, affinché la loro attività sia percepita dai cittadini in modo corretto, lineare, trasparente e necessaria. Lo statunitense Al Ries, l’uomo che ha rivoluzionato il marketing, introducendo il concetto di “posizionamento” del brand, sosteneva che, quando parliamo di marketing, dobbiamo considerare una serie di caratteristiche per rafforzare la capacità di attrarre il giusto target.

Possedere una parola chiave nella mente delle persone e farlo nel modo giusto. È quello che facciamo con successo con il Metodo Zwan da diversi anni per le più importanti organizzazioni italiane.

Condividi l'articolo

L’unica rivista dedicata
alla Corporate Reputation

Le ultime uscite

Ogni tre mesi un nuovo numero tematico ricco di approfondimenti, interviste e tendenze dal mondo della Corporate Reputation

Categorie

Leggi "Reputazioni"

In questo libro abbiamo raccolto la nostra esperienza sul campo. Attraverso i contributi di ospiti eccellenti, individuiamo il concetto di immagine e credibilità.

Social

Vuoi partecipare al prossimo numero

di Reputation Review?

Compila il form verrai ricontattato al più presto