Redazione • Welfare aziendale e premialità: due mondi distinti

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È assai diffusa la convinzione che il welfare aziendale possa essere utilizzato dal management per premiare i collaboratori “migliori” (nel senso di maggiormente produttivi, più disponibili, più affidabili etc.). Questa affermazione, seppure di successo tra i tanti consulenti che si contendono le aziende più performanti, è falsa. La logica del welfare aziendale non è innanzitutto premiante o incentivante, pur finendo per essere anche questo. Il motivo per cui i beni e servizi che entrano nei panieri dei piani di welfare non sono ricompresi nel reddito da lavoro (quindi non generano tasse e contributi) è la loro funzione sociale, ossia la capacità di rispondere ai bisogni extra-lavorativi delle persone: dalla cura di figli e familiari non autosufficienti alla sanità integrativa, dal trasporto pubblico alla previdenza complementare, dalle spese di istruzione alla long term care. Qualsiasi piano di welfare ove gli obiettivi monetari, seppure indiretti, appaiano più rilevanti dei benefici di utilità sociale è a rischio di contestazione da parte dell’Agenzia delle Entrate.

Per quanto possa apparire controintuitivo, la Associazione Italiana di Welfare Aziendale (AIWA – www.aiwa.it) non critica questa logica. Le modalità per premiare i propri collaboratori sono numerose (MBO, premi presenza, premi a risultato
etc.), talune anche incentivate fiscalmente (si pensi ai contratti di produttività con aliquota sostitutiva al 5%). In ogni caso si tratta, senza fraintendimenti, di redditi da lavoro. L’originalità del welfare aziendale e, conseguentemente la sua incomparabilità con qualsiasi altra forma agevolata di retribuzione, sta proprio nella non ricomprensione nel reddito,
tanto dell’impresa, quanto del lavoratore. Questa eccezionalità è giustificabile solo “producendo” un qualche vantaggio condiviso da tutti, addirittura da chi non lavora in azienda (il territorio circostante e i parenti dei dipendenti).

Questo non vuole dire che il welfare aziendale non c’entri nulla con il merito. Anzi. Più semplicemente, bisogna intendersi sulla definizione del termine. Se con “merito” si intende un dato solo individuale, un sinonimo di performance, allora è vero: non ci sono punti di incontro. Se alla parola “merito” si riconosce, invece, una colorazione collettiva (l’azienda va bene perché tutti, entro i propri limiti, collaborano), allora il welfare aziendale diventa una leva preziosa perché il management restituisca ai dipendenti un po’ di quegli asset sociali (tempo per sé e la famiglia, salute, fatica fisica) che ogni persona che vive seriamente la propria responsabilità sacrifica per il lavoro.

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